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[…] e compresi, in un certo senso, cos’é l’amicizia. E’ una presenza che non ti evita di sentirti solo, ma rende il viaggio più leggero

— David Trueba

36, 2020

Scritto da Mushin alle 23:44 del 24/12/2020

E rieccoci qua. In un luogo che ormai sembra solo servire a tenere traccia degli anni che passano. E siamo all’anno 12, registrato qui, dopo il 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019. Riassunto brevissimo delle puntate precedenti: il blog è il punto di partenza di molte cose che ho costruito, ho smesso di frequentarlo assiduamente ma continuo romanticamente a tenere viva questa specie di tradizione del post annuale. Fine del riassunto (avevo detto che era breve).

36

Ed eccoci al salto della staccionata. Varcati i 35, siamo ufficialmente più vicini ai 40. Non ho ancora capito cosa questo significhi, ma me lo sono sentito ripetere così tante volte che immagino significhi davvero qualcosa.

Per il momento, a parte più chili e meno capelli, non noto grandi differenze. O forse sì. Ma non ho ancora capito se dipendano dall’anno in più o dall’anno 2020, probabilmente lo scoprirò fra un po’ e onestamente non sono neppure troppo ansioso di farlo.

Che persona sono diventata dopo 36 anni? Quest’anno è stato particolare per tutti e io sono arrivato all’incontro con una qualità che non sapevo di aver maturato: il male non s’appiccica più. In passato ho sprecato un’enorme quantità di tempo in guerre, vendette, dimostrazioni di forza. Il modo più facile di ingaggiarmi in qualcosa era attaccarmi.

Il regalo dei 36 anni è la scoperta che davanti alla cattiveria gratuita o motivata (solo nelle intenzioni di chi la mette in atto), arriva prima la delusione per lo spreco di tempo rispetto alla proverbiale rabbia che smuove le montagne. E lo stesso succede con le cose che non sono ascrivibili a cattiveria, ma che mi fanno soffrire indicibilmente. La sofferenza non è più una minaccia esistenziale, ma un torrente di acqua gelida in cui riesco a fare il bagno, seppur tremando. Trasformare la sofferenza in rabbia è qualcosa che mi ha permesso di sopravvivere a tanti disastri ma a costo di immagazzinare scorie tossiche per produrre le mie bombe atomiche.

Non serve più. Forse a furia di sentir parlare di sostenibilità, sono diventato più sostenibile anch’io nelle mie risposte alla sofferenza.

2020

Il 2019 è stato emotivamente faticoso. E rido oggi (rido proprio, non sorrido) a pensare che le speranze che avevo evocato nel 2019, siano andate a sbattere contro questo 2020. Si tratta della dimostrazione, neppure troppo necessaria, di tre leggi fondamentali dell’Universo. La prima: al peggio non c’è mai fine, quindi sii grato per la sofferenza che puoi sopportare. La seconda: qualsiasi cosa pensi che possa accadere domani, bè la verità è che non sai proprio nulla. Quindi dato che siamo (e saremo sempre) ignoranti, meglio tuffarsi nel futuro con il sorriso e i desideri tirati a lucido, perché una buona rincorsa rende il tuffo spettacolare e memorabile anche quando non hai tecnica (la terza e legge è: non prendere mai sul serio nessuna legge che si spacci per universale).

Il 2020, dicevamo. Be’ almeno per quest’anno possiamo dire senza dubbio che è un anno come nessun altro.

Perdere

Probabilmente questa è la parola che un po’ tutti indicheremmo come etichetta esplicativa di questo 2020. Perdita di libertà, perdita di persone care, perdita di rapporti esplosi o evaporati, perdita di sguardi, abbracci, risate. Perdita di cene e concerti, perdita di fiducia, perdita di salute.

Il mio 2020 non è stato differente dai vostri. Per fortuna ancora risparmiato dal lutto, mi ha comunque portato via la persona a cui tenevo di più.

Però è troppo facile fermarsi alla perdita. La perdita è un’assenza, ma non un’assenza qualsiasi, occupa con un vuoto i contorni esatti di qualcosa che prima era lì, tangibile. La perdita arriva prima del dolore, ma anche questo infine ti assale, rapido, ed è poi l’ultimo ad andar via.

Ma non voglio celebrare la perdita. In fondo anche quando siamo concentrati sulla tragedia dell’albero che cade, la foresta continua a crescere. L’assenza che piangiamo oggi è stata prima il seme che avevamo accolto, ieri.

La sofferenza in ogni forma e grado è il solco che rompe la crosta delle nostre delusioni e abitudini passate ed espone la parte più tenera, dove si posano i semi che germogliano. Solo lì possono diventare parte del giardino che siamo, quando sappiamo nutrirli e proteggerli. Ma anche quando non vogliamo farlo, anche quando siamo decisi ad estirpare ogni minima parte di quello che un tempo ci appariva come un dono e oggi ci disgusta, anche quando questo ha lasciato una voragine in quel giardino. La sofferenza rimesta e un bel giorno, forse, vedremo spuntare un germoglio sconosciuto, che diventerà albero e sarà ombra per tante altre parti del giardino che siamo diventati.

Non prenderà mai il posto di quello che abbiamo perso, ma un’assenza non si riempie. L’assenza svanisce quando smettiamo di notarla e smettiamo di notarla quando ci accorgiamo che la perdita è solo un passaggio. Quando scopriamo che in fondo una parte di quello che abbiamo perso è ancora lì, nel giardino. Che è il giardino. Perché è parte di quello che siamo diventati e lo sarà per sempre, che ci piaccia o meno.

Le perdite importanti sono nere come la cenere: un’ottimo fertilizzante per quello che crescerà dopo.

Credere

Tutte queste considerazioni sulla perdita non hanno senso, se non vogliamo che ne abbiano. Viktor Frakl fondò la sua scuola di psicoanalisi basandosi sull’assunto che ciascun essere umano sia un generatore di significato. E che di base smettiamo di funzionare bene proprio quando smettiamo di digerire la realtà per produrre significato. Non so se sia davvero così, non sono neppure un grande fan della psicoanalisi, ma di certo questa prospettiva aiutò Frankl a sopravvivere all’inferno di Auschwitz.

Qualsiasi accadimento è interpretabile in molti modi diversi, anche concorrenti. Di una serie di accadimenti tenderemo a valorizzare quelli che confermano la nostra posizione, scartando o etichettando come eccezioni, quelli che la smentiscono. Siamo noi a costruire la nostra realtà e una perdita è esattamente quello che – coscientemente o meno – noi vogliamo che sia.

Non credo alle perdite inevitabili né ai finali già scritti. Non credo che le perdite siano un bene. Ma credo che l’unico modo per far sì che non siano un male insopportabile, sia proprio decidere che debbano essere un bene. Lavorare per far sì che la sofferenza sia una pioggia torrenziale ma non diventi palude. E credere che da tutta quell’acqua possa un giorno nascere qualcosa.

Il mio 2020 mi ha trovato pronto. Non immune alla sofferenza, ma pronto a non lasciarmi trascinare a fondo dal suo peso. Attento a discernere il momento in cui è saggio attendere e capire e quello in cui il nodo di Gordio va reciso in un sol colpo.

Ora faccio un bel respiro e mi tuffo in questo 2021. Ci vediamo, spero, dall’altra parte.

PS

Nota a me stesso: so che un giorno ripasserai da qui. Ricordati che ci hai creduto davvero, ricordati che ci hai provato come mai prima e questo aumenta il dolore. Ma da qualche parte sarai approdato e qualsiasi essa sia, ricordati che sei partito da qui, con un bagaglio leggero e stringendo nel palmo la convinzione che ne sia comunque valsa la pena, a prescindere da come è finita.

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