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Il dolore si indossa

Come indossi il tuo dolore?

Mi hanno sempre detto che i dolori si portano dentro. Sii gentile con chi incontri, non sai che battaglia sta combattendo. Dietro quel sorriso può nascondersi un dolore che non conosci. La sofferenza è celata agli sguardi degli altri.

Eppure secondo me il dolore lo indossiamo.

Un po’ come il male fisico, tipo un torcicollo. Non posso percepire quanto e dove senti male. Ma se ti osservo bene, posso vedere come ti muovi a causa di quel male, i movimenti che non fai o quelli che fai in modo diverso dal solito. C’è chi lo esibisce mettendotelo sotto il naso. C’è chi cerca di passare inosservato facendo meno movimenti possibile.

Il dolore di ciascuno puoi osservarglielo addosso, anche se non lo senti. È nel modo in cui si sorride, nel modo in cui si mangia, nel modo in cui si saluta.

È soprattutto nell’attenzione a cosa non facciamo, a come non ci muoviamo. È nello schivare e nello sfuggire. È in quelle cose in cui mettiamo una finta noncuranza, che non sono importanti, sono per caso.

Se guardi al singolo movimento, puoi essere depistato. Ma se osservi a lungo qualcuno muoversi, allora è difficile non vederlo, il suo dolore. È in ogni movimento come il mare è in ogni sua goccia. Ma è solo quando le metti tutte insieme che capisci cos’è, il mare.

Poche persone indossano il proprio dolore con noncuranza, con classe. E sono quelle che hanno capito che il dolore si indossa come un vestito, ma tu non sei il vestito

39, 2023

Oggi* è il mio compleanno, da 39 anni. Oggi è anche la fine di un anno in cui ho perso tre cose: 100.000 euro, un dente e un amore di quelli che ti fanno venire voglia di fermarti perché non ti serve altro.

Come puoi intuire «perdita» è il tema del post di quest’anno. Un post che scrivo ogni anno per riassumere come sono andati i miei 12 mesi, ormai da 14 anni (qui i precedenti

Perdere un dente

Il dente perduto (in realtà 3, ma solo 2 era previsto fossero eliminati) è diventato tale alla fine di una storia che inizia nel 2018. Sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui qualcosa sarebbe successo. Ma l’ho comunque perso all’improvviso e nel modo peggiore. 

Alcune perdite sono così: minacciate eppure immediate. E lì sai che nonostante il tempo che avevi per prepararti, alla fine andrai a rincorrere. 

Alcune perdite non ricrescono, sono definitive, cambiano tutto. Starai di nuovo bene dopo ma non sarà un “bene” come lo intendevi prima. Farà male, dovrai avere pazienza, ci sarà un nuovo equilibrio dopo la perdita. 

Questo mi ha insegnato perdere un dente.

Perdere 100.000 euro

Perdere dei soldi invece mi ha insegnato l’enorme differenza fra il peso delle parole e delle azioni. Vanno considerate insieme ma in caso di conflitto vincono le azioni.

Le parole sono importanti perché dicono dove vuoi andare, cosa vuoi essere. Ma sono le azioni a dire dove sei e chi sei.

Questo tipo di perdita mi ha insegnato che siamo più vulnerabili proprio rispetto ai nostri sogni e alla cose “troppo belle per essere vere” che desideriamo. Ci aggrappiamo alle parole proprio quando le azioni non le accompagnano, perché abbiamo il disperato bisogno che le parole realizzino quello che desideriamo.

Ho imparato che è una cosa importante pesare le azioni insieme alle parole. Per evitare grossi errori e perdite più dolorose.

La perdita qui è solo parte del gioco. Un capitolo, non una capitolazione.

Perdere un grande amore

Mi sono convinto che si smette di stare insieme non per il passato (ciò che è avvenuto) ma quando si perde la fiducia in un futuro condiviso.

Si tratta di una perdita strana, una perdita che lascia un vuoto, come un dente. Che lascia amarezza come un investimento andato male.

Il dolore di una perdita d’amore è un deserto vastissimo. Sai che dovrai attraversarlo ed è certo che ogni movimento, ogni goccia di acqua, sarà essenziale. Questo deserto non tollera disonestà o ipocrisie: più menti a te stesso, più sei condannato a vagare in quel dolore che ti prosciuga. Più sei onesto con te stesso, più il tuo percorso è dritto e puoi sperare di attraversare questo deserto perdendo molto ma non tutto. Che poi attraversandolo ti perdi e capita a volte che esci da questo deserto dallo stesso punto in cui sei entrato. Il punto è lo stesso, ma tu sei molto diverso.

Mi rifiuto di pensare che il dolore della perdita misuri davvero il valore di quello che hai perso. Il valore dell’amore si misura da quanto ti fa stare bene, non dall’impossibilità di sopportarne la perdita. Da quello che ci metti dentro sorridendo, non da quanto ne hai nostalgia.

Perdere un amore è una perdita strana perché è come la talea di una pianta. È una perdita, ma anche la possibilità di una moltiplicazione. Non è una perdita definitiva. 

Essere causa di una perdita

E quando siamo noi a causare una perdita? Come si sopravvive all’idea di aver perso qualcosa quando le nostre intenzioni erano le migliori? 

Sono stato cresciuto in una famiglia fondata sui migliori valori del cristianesimo, tra cui il perdono. I miei genitori mi hanno insegnato che perdonare qualcuno è difficile. Ma ancora più difficile è chiedere perdono. 

È difficile perché richiede una presa di coscienza. Ma soprattutto perché è un’azione. Il perdono non si chiede a parole ma con un atto che marca una posizione. 

Puoi anche non riceverlo, il perdono che cerchi. Ma chiederlo è già di per sé una liberazione: le perdite peggiori della mia vita sono quelle che mi sono portato dentro troppo a lungo nella difficoltà prima di tutto di perdonare me stesso perché non riuscivo innanzitutto a chiedermi perdono.

Una perdita è davvero una perdita?

Ogni perdita ti toglie qualcosa. A volte ricresce, altre volte no. Ma tutte le volte disegna nuovi equilibri. Non è qualcosa in meno ma qualcosa di diverso, se la accogli.

C’è un momento di qualsiasi perdita che mi ha sempre affascinato. È un istante in cui il tuo percorso si allontana dalla traiettoria che avevi tracciato e ti aspettavi avresti seguito. In quell’istante hai ancora l’impressione che basti allungare un braccio per afferrarla, la vecchia traiettoria. Basta poco per sistemare ancora le cose. Un po’ come il traghetto che si stacca dalla riva ma ancora in fondo solo pochi metri lo separano dal molo. Eppure una volta staccato, pochi metri valgono come chilometri. È ormai un nuovo equilibrio, anche se il vecchio è ancora visibile.

Contro la perdita non puoi fare molto, puoi solo decidere come reagire. Che comunque non è così poco.

In queste settimane ho sentito più volte riproposta la teoria de “la persona più importante da amare sei tu perché è l’unica che non ti deluderà”. È una teoria affascinante basata sull’idea che se la tua esistenza deve avere un centro, allora quel centro devi essere tu stesso. Investire su stare bene con te stesso ti mette al riparo o modera gli effetti di una perdita.

Mi è sempre sembrata una teoria idiota e pericolosa.

Idiota, perché qualsiasi perdita (salute, soldi, affetti) porta dolore e il dolore ha questo ruolo: bruciare il superfluo e costringerti a fare i conti con te stesso (che per definizione non puoi essere il superfluo, nella tua vita). È un fatto. È come dire che in caso di incendio l’importante è non bruciare.

Pericolosa, perché se è vero che ricentrarsi dopo una perdita è importante, questo non può essere un programma di vita. È un’ottima misura di emergenza, ma non per questo è un ottimo approccio alla vita. Nessuno può vivere bastando a se stesso. Continueremo sempre a rischiare i nostri soldi, la nostra salute, la fiducia e i sentimenti.

Persino gli anacoreti erano animati da una motivazione trascendente. Allora ricentrarsi è giusto ma è una fase temporanea, non puoi “amare te stesso” e basta. Non è felicità, è paura. È paura di una perdita possibile. Possiamo imparare ad amarci davvero solo misurandoci con gli altri, con le nostre ambizioni e desideri, rischiando di perdere. Costretti a disegnare un ordine di priorità.

Ho perso molto quest’anno. È stato doloroso e lo è tutt’ora. Ma so per certo che succederà ancora perché perdita è uno dei tanti nomi che possiamo dare al cambiamento. Ma guardare al dolore della perdita e basta sarebbe ingrato. Un po’ come giudicare la cena al ristorante soltanto da quanto il conto è caro. 

Davanti al rischio di star male per una perdita la domanda è solo una: ne vale la pena?

*Il mio compleanno è il 6 Dicembre. Ma questo post ha richiesto qualche giorno in più perché ho salutato i 39 anni a letto, con la febbre e la faccia rotta da un chirurgo maxillo-facciale

Affinità

Affinità. È un rapporto di parentela, attinenza, analogia di caratteristiche. L’etimologia parte dal concetto di “confinante” in latino.

Affine per come sono, rispetto a com’è qualcun altro. Ma affine può anche significare che siamo diversi ma abbiamo in comune una destinazione, una meta verso cui abbiamo deciso di dirigerci.

La mia è la prima generazione nella storia dell’uomo a confrontarsi con Internet e con una società della post-prosperità e della sovrabbondanza di stimoli. Siamo esposti a troppi stimoli e a troppa varietà. È ancora sensato concepire l’affinità fra due persone come un incastro dato, la selezione della giusta corrispondenza? Affinità di cosa siamo oggi.

O forse l’unica affinità possibile è quella degli intenti, delle destinazioni? Affinità di ciò che vogliamo diventare.

Se cerchiamo questa affinità allora dobbiamo imparare non solo a condividere ma a comprendere e accogliere. Comprendere la scala di valori dell’altro, il suo modo di misurare la realtà. E accoglierlo: nella diversità deve andarci bene.

Making someone feel seen, heard and understood / Is the loudest way / To love them (Wild Faith)

Un tempo le nostre vite erano come una grande campagna attraversata da pochi sentieri. Bastava incamminarsi dandosi una direzione approssimativa per incontrarsi, ci si orientava a vista e con il sole.

Ma oggi le nostre vite sono come una città caotica: per incontrarsi occorre darsi appuntamento in un luogo noto a entrambi, nel caos delle altre vite che rumoreggiano intorno.

E riuscire a sovrastarne il frastuono

38, 2022

A cosa serve una bugia?

Esistono diverse sfumature di bugia: le calunnie, le parzialità, le omissioni. Ma tutte condividono la stessa natura. A cosa servono? Secondo me: tutte le bugie sono aggiustamenti della realtà.

Questo 2022 è stato un anno denso di eventi per me, eventi rari che hanno cambiato molto di me e della mia vita. Questo post, fedele a una tradizione iniziata nel 2009, è il tentativo di catturare l’essenza dell’anno appena trascorso. Un anno di viaggio in più per il pianeta, un anno in più del mio viaggio insieme al pianeta. Un anno in cui ha molto senso utilizzare la parola «rivoluzione» per entrambi i viaggi.

A questo punto è necessario fare una premessa. Questo 2022 mi ha proposto un nuovo punto di osservazione, quello di chi le bugie le subisce. Ma questo post non parlerà del martirio di chi subisce una bugia. Conosco molto bene il mio usuale punto di osservazione: quello di chi le bugie le costruisce. Non ci sono innocenti qui. Questo post parla di quello che ho visto nel mio 2022, di cosa mi ha sussurrato o urlato, di quello che spero mi abbia insegnato. Iniziamo.

Le bugie, dicevamo, sono «aggiustamenti della realtà». Ma perché sono così diffuse? Perché la realtà è problematica, complicata, spesso dolorosa. Ma soprattutto: la realtà non esiste. Esistono solo le interpretazioni che ne facciamo. Tutto quello che ci circonda è interpretazione: dei dati raccolti dai nostri sensi, delle astrazioni del nostro cervello. E cos’è l’interpretazione? Un altro aggiustamento della realtà: scegliamo noi cosa connettere e scegliamo noi cosa tralasciare. Ecco che non possiamo conoscere la realtà, ma solo sue approssimazioni. Provate a prendere dell’LSD se non mi credete.

Quindi noi viviamo già in una realtà “aggiustata”, sulla base delle nostre interpretazioni prendiamo decisioni che generano conseguenze che generano altre interpretazioni. Le bugie sono solo aggiustamenti con steroidi, interpretazioni semplificate, approssimazioni di scarsa sostanza.

«Eh, un momento, ma i fatti?» mi direte. Bè, davvero i fatti esistono al di fuori delle interpretazioni? Esistono eventi, esistono dati, ma è il modo in cui li connettiamo che genera la realtà. I fatti sono solo una porzione di realtà che noi decidiamo essere autonoma dal resto. E questo mi porta dritto al primo grande accadimento che ha modellato il mio 2022. Per la prima volta in vita mia, a Marzo, mi sono trovato davanti una lettura di “eventi” totalmente falsa, ma completamente reale negli effetti che ha determinato. Come faccio a dire che la lettura era falsa? Perché nel caso in specie addossava a me un’intenzione e un corso d’azioni che non ho mai posto in essere (almeno su ciò che penso e faccio, posso considerarmi l’esperto massimo). Era quindi una bugia? Sì perché quell’interpretazione di eventi era un’interpretazione falsa nel senso che ricostruiva una direzione e una intenzione (in capo a me) che non ho mai avuto.

Anche se non era impossibile. Le bugie anzi non lo sono mai. Sono sempre verosimili. Quell’interpretazione non è molto aderente agli eventi, ma è possibile. È una delle molteplici interpretazioni che si possono dare degli eventi accaduti. Occam direbbe che non è di buona qualità, ma cionondimeno è possibile.

E qui arriviamo a una differenza fra bugie e interpretazioni. Le bugie sono aggiustamenti della realtà preferiti. Presuppongono a monte un desiderio o una paura che non è figlia dell’interpretazione, ma la precede. Ed è proprio in virtù di quel desiderio o di quella paura, che le nostre migliori qualità analitiche sono piegate alla bisogna. A volte senza che ce ne rendiamo bene conto (in fondo si dice avere un desiderio o avere paura. Ma quando proviamo l’uno e l’altro percepiamo che siamo desiderio e siamo paura).

Questa interpretazione ha modellato la mia vita. Probabilmente anche per gli anni a venire. Ho provato una rabbia sorda e cieca, degna di Orlando senza senno che sradica foreste. Ma passata quella mi è rimasta dentro una grande tristezza. Perché alla fine è questo che ti lascia una bugia, quando la scopri, in fondo alla rabbia e alla sofferenza. Una domanda triste: «davvero è stato più utile a qualcuno tutto questo?».

Quindi le bugie sono interpretazioni possibili della realtà, ma anche tendenziose: sono modellate a priori da un desiderio o da una paura.

Un’altra caratteristica delle bugie è che sono un sistema. Proprio perché sono le interpretazioni più deboli degli eventi, prima o dopo vengono sfidate dalla realtà (o meglio: dalle interpretazioni migliori della realtà). E per tenere in piedi una bugia assediata da venti e maree della realtà come un palazzo con le fondamenta deboli, puoi fare solo due cose: abbatterlo e ricominciare da capo, ammettendo l’errore. Oppure costruirne uno di fianco per dare sostegno al primo. E poi un secondo, e poi un terzo. Così facendo aumenti temporaneamente la stabilità della prima menzogna, ma anche la spettacolarità del crollo. Certo, ci sono bugie che durano decenni, forse anche secoli. Perché in fondo si perde traccia della prima interpretazione e ormai da quel primo edificio s’è generata una città gigante. Ma questo richiede uno sforzo enorme, lungo una vita. E questo ci porta a un’altra caratteristica.

Le bugie sono costose. Diciamo che è legato all’essere insostenibili. All’inizio non sembra così, come pagare la prima rata del mutuo. Ma se il mutuo durasse tutta la vita, con rate di importo variabile incrementale? Ecco le bugie sono un po’ così. E con cosa si pagano? A volte in denaro, ma spesso con pezzi di sé. Molto più costoso. Per mantenere una bugia devi convincerti che sia vera. Anche quando il desiderio o la paura che l’ha generata, cessa di esistere. O diventa meno terrificante del sistema di bugie che hai messo in piedi.

Le bugie creano distanza. Pagare con “pezzi di sé” è una metafora. Ma credo catturi bene la questione. È un po’ come mettere la proverbiale «polvere sotto al tappeto», devi accumulare da qualche parte quello che non puoi mostrare a nessuno e l’unico posto dove puoi metterlo è dentro di te. E come fare posto a questo deposito di scorie radioattive? Cedendo pezzi di sé. Dedicando attenzione e tempo al mantenimento del deposito radioattivo, si negano agli affetti e alle cose belle che ci circondano. Non inviti mai davvero nessuno nel tuo cuore, perché hai il terrore che possa chiederti «e questo cos’è?» indicando quel bel fusto fluorescente riposto nell’angolo.

Poi: le bugie sono ingrate. Inizialmente continuano a far parte della realtà come da progettazione iniziale. E questo è esattamente quello che vogliamo, quando le progettiamo: allineiamo gli altri ad una realtà che ci va bene (o che almeno non ci va troppo male). Ma una volta partorite, le bugie non obbediscono più tanto. Anzi tendono a governare le nostre azioni tanto quanto quelle degli altri. Finché non vengono scoperte e allora è un incubo: da strumento che abbiamo creato per allineare le decisioni degli altri al nostro volere, ecco che diventano uno strumento in mano a quegli altri, per perseguitarci.

E infine, la mia preferita: le bugie sono una bussola. Questo perché indicano la strada sempre: quando sei tentato dall’usarle, ti indicano esattamente cosa non fare. Quando le usi: ti indicano la direzione del tornare indietro il prima possibile.

In questo 2022 mi sono svegliato dall’altra parte. Mi sono svegliato nei panni di chi le bugie e le omissioni le subisce. Questo non fa di me un martire, anzi, credo che sia stata la giusta “punizione” per anni in cui ho seriamente creduto di essere più bravo degli altri a spacciare interpretazioni aggiustate della realtà. Un risveglio brusco che ha causato la frana di certezze e muri che credevo intoccabili.

La cosa che ho imparato è che quando si parla di bugie non esistono vincitori e vinti. Perdiamo tutti. Sempre. Non è possibile porre rimedio alle bugie, ma è possibile evitare che continuino ad avvelenare il futuro. Un po’ come in quei film dove un’enorme bomba a orologeria minaccia di distruggere tutto. La bomba l’hai fatta tu, ma non esiste il telecomando per fermarla. Però sai dov’è, sai quanto tempo hai e la cosa meno stupida di tutte è andarla a prendere, portarla dove il danno sarà minimo e decidere di farla detonare. Decidere è la chiave.

Il 2022 mi ha insegnato che l’opposto delle bugie non è la verità. L’opposto delle bugie è la problematicità e la complessità. Le bugie servono a difenderci da questo. Ma la buona notizie è che non esistono solo le bugie. Esistono anche le decisioni. Le decisioni sono quella cosa che rende chiaro agli altri qual è l’approssimazione che abbiamo scelto per la nostra vita. Sono quegli eventi che affermano che sì, non abbiamo il controllo sulle cose che non ci piacciono, ma proveremo a raccogliere la paura e il desiderio e a percorrere tutta la strada fino in fondo, senza scorciatoie. Ma soprattutto spiegando alla persona che abbiamo accanto che non abbiamo idea di dove stiamo andando e che ce la stiamo facendo sotto, mentre stringiamo la sua mano.

La sua mano. Mantenere viene da qui, “tenere per mano”. E forse è proprio per questo che le bugie non si possono mantenere. Non hanno una mano da stringere.

PS 1: questo post riassume la lezione più grande di questo mio 2022. Ma non esaurisce certo il mio 2022. Un anno che mi ha regalato dei momenti “bassi” molto profondi, ma la cui profondità non ha potuto mai sfidare l’altezza dei momenti più “alti”. Sono stato molto felice, pienamente felice. E ho grande fiducia nel futuro, grazie a quello che questo 2022 mi ha permesso di accogliere e di imparare

PS 2: questo post sarebbe incompleto senza un pensiero dedicato a tutte le persone che hanno subito le mie bugie, note o meno. Desiderio e paura mi hanno fatto scegliere la via più breve, di questo mi pento perché non lo meritavate voi e non lo meritavo io. Ma è nel futuro che questo “costo” può diventare “investimento”

37, 2021

Dicembre 2021, compleanno dei trentasette. Mi ritrovo davanti al computer, questa volta a Dubai e – sì – continuo a pensare che il giorno del proprio compleanno sia un momento per fermarsi a ricordare, pensare, analizzare.

Ma: quest’anno non sono molto da resoconto annuale. Perché più ci penso, più non riesco a trovare soddisfacente la forma usata per tutti gli altri anni (per chi si fosse perso le puntate precedenti: ogni anno, dal 2009, scrivo un post di “bilancio” considerando che la fine dell’anno solare coincide grossomodo anche con un anno di vita in più per me).

Che fare? Cambiare. Ho deciso di raccontare il mio anno attraverso la domanda che più mi ha tenuto impegnato nei miei 36 anni. Eccola: cos’è l’amore?

D’accordo, in effetti è una domanda un po’ inutile (meglio: idiota) per almeno due ragioni. La prima è che si tratta di una domanda che perdura una vita e forse non ha neppure una risposta. La seconda ragione è che tutti amiamo, o smettiamo di amare, continuamente. E quindi non è poi così importante sapere cosa sia l’amore, un po’ come non ti serve sapere cosa sia il tempo per arrivare puntuale al cinema.

Il punto però non è la risposta alla domanda ma i miei tentativi di rispondere a questa domanda, perché mi permettono di raccontare cos’è stato per me questo 2021 e questo trentasettesimo anno d’età. La domanda è rimasta più o meno la stessa negli anni, mentre io sono cambiato parecchio. E nulla ti mostra quanto e come sei cambiato, come misurarti con le cose consuete.

Quindi: nessuno ha la risposta a questa domanda e questo l’ho capito (come tutti) alla fine dell’adolescenza. O forse sarebbe meglio dire che l’adolescenza finisce quando capiamo che nessuno ha la risposta a questa domanda: è la fine del bianco o nero, della teoria della mezza mela, della vittoria schiacciante o morte gloriosa. Non c’è un incastro predestinato a me e solo a me, che mi renderà completo nell’amore certificato dall’incastrarsi perfettamente (non bene o sufficientemente: perfettamente).

Ero felice dell’età adulta perché ci dice che se ognuno ha diritto alla propria, di risposta sull’amore, valida per sé e non per altri, cade così l’ansia di dover trovare la persona speciale fra i diversi miliardi di quelle possibili che popolano il pianeta (diciamocelo: trovare un ago in un pagliaio sarebbe più facile). Ma è anche un po’ pericoloso, perché in fondo non puoi più attribuire alla sfiga il fatto di non trovare la persona giusta (diciamocelo: la teoria della mezza mela è un buon alibi e pure una buona speranza, sempre per via di quei miliardi di possibilità potenzialmente in attesa). 

Comunque sia, dicevamo: sfumature, scale di grigio e sembrerebbe, finalmente, una spiegazione migliore del casino relazionale che si chiama amore. Non c’è più la mezza mela. Quindi: da “trovare” passi a “costruire”. Sicuramente questo spiega perché trovi l’amore vicino a te, fra le persone con cui entri in contatto e non mandando una lettera a un indirizzo a caso in Pakistan. Però certo non costruisci con chiunque, devi trovare qualcuno (esatto, ritorna il “trovare”) che abbia un’idea di amore simile, affine alla tua. Se no la cosa non funziona. Ecco questa cosa io l’ho capita intorno a 27 di anni (sì, potevo far prima) e inizialmente mi rendeva ottimista perché io sono un entusiasta dentro: se la questione è costruire allora dipende da me e se dipende da me tutto è possibile (sì, esatto, sono sagittario). Ma come tutti gli entusiasti dentro (o appunto i sagittario) passato l’entusiasmo passa anche l’ottimismo (che viene sostituito con un nuova coppia entusiasmo-ottimismo nuova di zecca). Però pur avendo abolito il determinismo della mezza mela, in effetti cambia tutto per non cambiare niente. Ci troviamo comunque a dover trovare qualcuno che condivida un’idea di amore affine. E questo significa di nuovo: tentativi, sfiga, disperazione, speranza e poi di nuovo tentativi, ecc. ecc.

E può essere pure peggio, come quando ti sembra che funzioni tutto (e magari per anni funziona tutto) e poi improvvisamente scopri che non funziona più e forse funzionava solo nella tua testa. Almeno la teoria della mezza mela poteva essere usata per dire: “è andata così”. Pensavo fosse la mia mezza mela e invece no. Tra tutte queste mezze mele può capitare di sbagliarsi. Ma nella teoria dell’affinità succede che scavi con passione una bella fossa profonda e poi dopo anni scopri che tu stavi gettando le fondamenta del Burj Khalifa, mentre l’altro stava solo facendo una piscina per l’estate. Insomma: non puoi neppure incolpare il destino che almeno faceva mezze mele di taglie diverse, ma non ti avrebbe mai rifilato una mezza banana.

Ma cosa c’entra questo con il mio 2021? Ecco, arrivo al punto. Nel 2021 questa domanda (“cos’è l’amore?”) mi ha regalato uno spettro di riflessioni completamente nuove. 

La prima riguarda il mio lavoro. Una delle cose che ho amato di più in questi 37 anni. O meglio: ho sempre fatto delle cose che ho amato profondamente un lavoro. Sono stato molto fortunato in questo percorso pieno di accidenti che avrebbero potuto farmi molto male e invece mi hanno fatto scoprire, imparare e crescere attraverso la triade fondamentale di: sofferenza, gioia e sticazzi. 

Questo tipo di amore è diventato maturo, ci guardiamo come una coppia stanca: stanchi per mollarci e ricominciare, stanchi per continuare come abbiamo fatto fin qui. Ci amiamo dal 2008 e non siamo mai rimasti uguali a noi stessi per troppo tempo. Ma con grande onestà, sappiamo che il 2022 sarà necessariamente un anno di nuovi equilibri: saluterò definitivamente l’insegnamento dimettendomi dal mio (ultimo) incarico da docente (allo IULM) e interrompendo così questa “relazione” che ho fortemente voluto e che mi ha tenuto appassionato fin dalla prima Ninja Academy nel febbraio 2010. Sono stati 12 anni vissuti intensamente, ho conosciuto decine di migliaia di persone (letteralmente!) e soprattutto (confesso!) ho imparato più di quanto abbia insegnato. Mi sono interrogato molto sul lasciare tutto questo. Non saprei spiegare cosa sia venuto meno, devo ancora capirlo, ma di certo è venuto meno qualcosa. L’insegnamento non è un mestiere: è una vocazione e proprio per questo smetto, per evitare che diventi un mestiere. La vocazione è una chiamata cui rispondi senza sapere bene perché ma sentendo bene perché. Come nelle relazioni di lungo periodo, lasciarsi è doloroso, ma anche doveroso, quando capisci che non hai un vero motivo per lasciare, ma ti manca un motivo per andare avanti. Ci ho messo 3 anni ad arrivare a questa conclusione sull’insegnamento e inizio a orientare questo pensiero anche all’amore per la comunicazione e la vita di agenzia.

La seconda riflessione mi ha portato (sorprendentemente) alla conclusione opposta: a volte, nelle relazioni di lungo periodo, è bene prendersi dei momenti di pausa, quando non sai cosa sta succedendo o sei stanco. Arrivare a questa conclusione mi ha fatto vergognare un po’, perché sono sono sempre stato un convinto evangelizzatore dell’inutilità delle pause di riflessione in un rapporto (in realtà credo di aver sempre detto “sono una stronzata da vigliacchi”). Eppure in questo 2021 ho vissuto una cosa che mai mi sarei aspettato: ho smesso di leggere. Per un lungo periodo. È qualcosa che mi ha profondamente scosso, i libri e la lettura sono stati il mio primo amore da quando ho memoria. Ho pensato alla causa, ma trovarla non mi ha aiutato. Quello che mi ha aiutato è stato smettere di voler risolvere a tutti i costi il problema. Mi sono preso una “pausa di riflessione” (ma sarebbe più corretto chiamarla una pausa, perché avevo già riflettuto abbastanza). Quest’estate ho riempito la valigia di libri, come di consueto, però con poche speranze. E invece, dopo oltre sei mesi di digiuno, mi sono ritrovato a divorare parole, pagine e volumi. Come se nulla fosse successo. La cosa che ho imparato è che se sei dentro al problema allora serve innanzitutto distanza. E quando ti sei allontanato a volte fatichi proprio a vederlo, il problema: era lì, ne sei certo, lo potevi toccare. E ora che sei ritornato dopo essere stato lontano, improvvisamente non c’è più, s’è risolto da solo. O forse il problema eri tu e avevi bisogno di spostarti da te stesso per tornare a essere te stesso (lo so, sembra una frase senza senso, ma perché la fisica quantistica allora?). 

Quindi, fin qui: amore significa che occorre mollare, anche senza un chiaro motivo per farlo. Ma significa anche l’opposto, cioè che bisogna aspettare anziché mollare, quando non si ha un chiaro motivo per prendere una qualche decisione. Insomma: non si capisce una mazza (direi: proprio come la fisica quantistica).

E questo mi porta alla terza e ultima riflessione. Se è vero che a un certo punto capiamo che la mezza mela non esiste e amare significa farsi il culo per costruire qualcosa con qualcuno che la pensi in modo affine a te, a un altro punto capiamo anche che è davvero difficile capirci qualcosa. La terza riflessione riguarda proprio questa difficoltà. Da cosa dipende? Davvero siamo così scarsi a scegliere su chi e cosa investire? Non credo. Il vero problema è probabilmente che ciò di cui ci innamoriamo può cambiare, nel tempo. Ma soprattutto che noi cambiamo, nel tempo. Il mio 2021 mi ha mostrato come io sia cambiato, in modi che mi hanno sorpreso positivamente e in altri di cui ho avuto paura. 

E infine: il punto non è cambiare o non cambiare. Cambiare in un modo o in un altro. Ma darsi la possibilità di cambiare insieme. Altrimenti è intrattenimento e vale tutto.

Questo cambiare insieme, richiede qualcosa che mi ha sempre fatto paura. Aprirsi. Chiedere. Rispondere. Abbracciare i problemi, anziché distogliere lo sguardo. Ciascuno di noi contiene una moltitudine e quello che mostriamo agli altri non è identità, ma un riflesso momentaneo e instabile. Se ti distrai è un attimo: i rapporti vengono modellati più da ciò che teniamo per noi che da quello che diamo.

Almeno questa è la mia paura ed è stata spesso anche il mio destino.

Il mio 2021 è iniziato con una perdita. Una perdita però diversa dalle altre, in un modo che solo adesso – alla fine di questo anno – inizio a comprendere. L’ho messo nella categoria “fallire facendo la cosa giusta”, molto diversa dalla solita che è “fallire mandando tutto a puttane con una fragorosa minchiata” (arte di cui sono già cintura nera).

Questo 2021 è iniziato con una perdita, ma resterà nella mia memoria come un anno di grandi fortune. La fortuna di amare e sentirmi amato, la fortuna di ritrovare chi avevo dato per perso, la fortuna di esplorare terreni impervi, la fortuna di potersi porre domande, di tentare, di sbagliare o di non fare assolutamente nulla, la fortuna di poter stare ad aspettare, guardando un Botticelli.

Non so cosa sia l’amore ma una cosa mi è chiara: accade, mentre siamo concentrati a cercare la risposta.

Casa nuova

Ultima mattina in questa casa. Il saluto è veloce ma non frettoloso. Ho avuto in eredità geni nomadi, riesco ad affezionarmi a un luogo ma mai a identificarmici. Un ultimo sguardo lanciato in giro, come a un amico d’infanzia prima di partire per un viaggio senza ritorno. E sarà aria sulla faccia, fuori di qui, con lo sguardo verso altri orizzonti.

Il 2020 ha costretto tutti a un nuovo rapporto con gli spazi che chiamiamo “casa”. Ciascuno di noi ha rivisto a modo suo questa parola. Per me “casa” è una parola funzionale (la uso per indicare qualsiasi luogo dove vado a dormire la sera) e al tempo stesso relazionale: casa non è il luogo, ma la relazione in cui ti senti “a casa”.

Se casa non è un luogo ma è sentirsi a casa, allora casa è una condizione. E come tale richiede manutenzione continua oppure il tempo la farà crollare. Le case possono prendere fuoco. Essere inondate. Diventare troppo fredde o troppo calde.

Cambiare casa è la risposta più estrema ma per certi versi anche più facile, perché una casa non si può riparare, si può solo ristrutturare, trovando il modo di far coesistere quello che era con quello che vogliamo diventi, per continuare a sentirci “a casa”. Anche un piccolo segno, come la muffa, spesso è sintomo di cause multiple e intrecciate tra loro in modo complesso. Il miglior modo di affrontare queste piccole rogne non è cercare il perché, o si finisce subito impantanati nella complessità delle ipotesi senza risposta. Il miglior modo è concentrarsi sul capire il come, per isolare solo dopo il perché. Un’infiltrazione d’acqua può avere tanti perché, ma seguendo il come, si arriva più sicuramente al perché corretto.

Ultimi attimi, chiuderò un’ultima volta questa porta alle mie spalle, salutando i momenti vissuti qui, il modo in cui mi sono “sentito a casa” in questo appartamento così pieno di bollicine.

E sarà una nuova prima volta nel posto in cui sono sempre tornato, negli ultimi sette anni. Un posto che è stato tante case diverse e che da oggi tornerà ad essere una casa nuova.

Terra

Non più albe sulle tue distese candide. Non più i tuoi dolci pendii discesi in punta di dita. Non più felici naufragi in vista delle colonne d’ercole delle tue labbra.

È oceano aperto adesso. 

Nulla, è quello che lo sguardo incontra in tutte le direzioni che percorre. 

Acqua di sale e di pioggia si insinua ovunque trovi un minimo spazio da infreddolire.

Vento che scuote certezze e si fa beffe di rotte tentate, urla il suo scherno incomprensibile.

Sole, un tempo caro alla pelle, gioca a nascondersi quando invocato fino a comparire infine per bruciare senza pietà.

Manca quella terra da chiamare casa, che l’occhio consuma percorrendo ogni costa centinaia, migliaia di volte, come fossero la prima. Terra che la lingua invoca con nomi segreti e sussurrati, ripetuti come una preghiera. Terra su cui stendere la pelle reietta in un abbraccio che resta tentato perché mai si appaga e sempre è suscitato

Rumore

Fu il rumore a svegliarmi. Lo stesso che rese difficile prendere sonno. Sempre lui mentre lavo i denti, sempre con me mentre scelgo cosa mangiare. Aumenta d’intensità fra le lenzuola, o quando penso di scegliere qualcosa da vedere in TV.

Allora ho gridato per farlo andar via, ma lui non s’è fatto intimidire e ha ripreso più forsennatamente di prima. Allora ho pianto di disperazione, ma il rumore non prova pietà.

L’ho portato nel silenzio, sperando che annegasse, ma lui ha lottato, si è affievolito, ma è rimasto in sottofondo.

Non mi è rimasto che tentare di produrre un rumore ancora più grande, ma non è stata una grande idea: il rumore aumenta il rumore.

Allora gli ho chiesto di andar via, di lasciarmi in pace. E lui ha risposto che andrà via solo quando smetterò di far cozzare i ricordi con i rimpianti.

36, 2020

E rieccoci qua. In un luogo che ormai sembra solo servire a tenere traccia degli anni che passano. E siamo all’anno 12, registrato qui, dopo il 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019. Riassunto brevissimo delle puntate precedenti: il blog è il punto di partenza di molte cose che ho costruito, ho smesso di frequentarlo assiduamente ma continuo romanticamente a tenere viva questa specie di tradizione del post annuale. Fine del riassunto (avevo detto che era breve).

36

Ed eccoci al salto della staccionata. Varcati i 35, siamo ufficialmente più vicini ai 40. Non ho ancora capito cosa questo significhi, ma me lo sono sentito ripetere così tante volte che immagino significhi davvero qualcosa.

Per il momento, a parte più chili e meno capelli, non noto grandi differenze. O forse sì. Ma non ho ancora capito se dipendano dall’anno in più o dall’anno 2020, probabilmente lo scoprirò fra un po’ e onestamente non sono neppure troppo ansioso di farlo.

Che persona sono diventata dopo 36 anni? Quest’anno è stato particolare per tutti e io sono arrivato all’incontro con una qualità che non sapevo di aver maturato: il male non s’appiccica più. In passato ho sprecato un’enorme quantità di tempo in guerre, vendette, dimostrazioni di forza. Il modo più facile di ingaggiarmi in qualcosa era attaccarmi.

Il regalo dei 36 anni è la scoperta che davanti alla cattiveria gratuita o motivata (solo nelle intenzioni di chi la mette in atto), arriva prima la delusione per lo spreco di tempo rispetto alla proverbiale rabbia che smuove le montagne. E lo stesso succede con le cose che non sono ascrivibili a cattiveria, ma che mi fanno soffrire indicibilmente. La sofferenza non è più una minaccia esistenziale, ma un torrente di acqua gelida in cui riesco a fare il bagno, seppur tremando. Trasformare la sofferenza in rabbia è qualcosa che mi ha permesso di sopravvivere a tanti disastri ma a costo di immagazzinare scorie tossiche per produrre le mie bombe atomiche.

Non serve più. Forse a furia di sentir parlare di sostenibilità, sono diventato più sostenibile anch’io nelle mie risposte alla sofferenza.

2020

Il 2019 è stato emotivamente faticoso. E rido oggi (rido proprio, non sorrido) a pensare che le speranze che avevo evocato nel 2019, siano andate a sbattere contro questo 2020. Si tratta della dimostrazione, neppure troppo necessaria, di tre leggi fondamentali dell’Universo. La prima: al peggio non c’è mai fine, quindi sii grato per la sofferenza che puoi sopportare. La seconda: qualsiasi cosa pensi che possa accadere domani, bè la verità è che non sai proprio nulla. Quindi dato che siamo (e saremo sempre) ignoranti, meglio tuffarsi nel futuro con il sorriso e i desideri tirati a lucido, perché una buona rincorsa rende il tuffo spettacolare e memorabile anche quando non hai tecnica (la terza e legge è: non prendere mai sul serio nessuna legge che si spacci per universale).

Il 2020, dicevamo. Be’ almeno per quest’anno possiamo dire senza dubbio che è un anno come nessun altro.

Perdere

Probabilmente questa è la parola che un po’ tutti indicheremmo come etichetta esplicativa di questo 2020. Perdita di libertà, perdita di persone care, perdita di rapporti esplosi o evaporati, perdita di sguardi, abbracci, risate. Perdita di cene e concerti, perdita di fiducia, perdita di salute.

Il mio 2020 non è stato differente dai vostri. Per fortuna ancora risparmiato dal lutto, mi ha comunque portato via la persona a cui tenevo di più.

Però è troppo facile fermarsi alla perdita. La perdita è un’assenza, ma non un’assenza qualsiasi, occupa con un vuoto i contorni esatti di qualcosa che prima era lì, tangibile. La perdita arriva prima del dolore, ma anche questo infine ti assale, rapido, ed è poi l’ultimo ad andar via.

Ma non voglio celebrare la perdita. In fondo anche quando siamo concentrati sulla tragedia dell’albero che cade, la foresta continua a crescere. L’assenza che piangiamo oggi è stata prima il seme che avevamo accolto, ieri.

La sofferenza in ogni forma e grado è il solco che rompe la crosta delle nostre delusioni e abitudini passate ed espone la parte più tenera, dove si posano i semi che germogliano. Solo lì possono diventare parte del giardino che siamo, quando sappiamo nutrirli e proteggerli. Ma anche quando non vogliamo farlo, anche quando siamo decisi ad estirpare ogni minima parte di quello che un tempo ci appariva come un dono e oggi ci disgusta, anche quando questo ha lasciato una voragine in quel giardino. La sofferenza rimesta e un bel giorno, forse, vedremo spuntare un germoglio sconosciuto, che diventerà albero e sarà ombra per tante altre parti del giardino che siamo diventati.

Non prenderà mai il posto di quello che abbiamo perso, ma un’assenza non si riempie. L’assenza svanisce quando smettiamo di notarla e smettiamo di notarla quando ci accorgiamo che la perdita è solo un passaggio. Quando scopriamo che in fondo una parte di quello che abbiamo perso è ancora lì, nel giardino. Che è il giardino. Perché è parte di quello che siamo diventati e lo sarà per sempre, che ci piaccia o meno.

Le perdite importanti sono nere come la cenere: un’ottimo fertilizzante per quello che crescerà dopo.

Credere

Tutte queste considerazioni sulla perdita non hanno senso, se non vogliamo che ne abbiano. Viktor Frakl fondò la sua scuola di psicoanalisi basandosi sull’assunto che ciascun essere umano sia un generatore di significato. E che di base smettiamo di funzionare bene proprio quando smettiamo di digerire la realtà per produrre significato. Non so se sia davvero così, non sono neppure un grande fan della psicoanalisi, ma di certo questa prospettiva aiutò Frankl a sopravvivere all’inferno di Auschwitz.

Qualsiasi accadimento è interpretabile in molti modi diversi, anche concorrenti. Di una serie di accadimenti tenderemo a valorizzare quelli che confermano la nostra posizione, scartando o etichettando come eccezioni, quelli che la smentiscono. Siamo noi a costruire la nostra realtà e una perdita è esattamente quello che – coscientemente o meno – noi vogliamo che sia.

Non credo alle perdite inevitabili né ai finali già scritti. Non credo che le perdite siano un bene. Ma credo che l’unico modo per far sì che non siano un male insopportabile, sia proprio decidere che debbano essere un bene. Lavorare per far sì che la sofferenza sia una pioggia torrenziale ma non diventi palude. E credere che da tutta quell’acqua possa un giorno nascere qualcosa.

Il mio 2020 mi ha trovato pronto. Non immune alla sofferenza, ma pronto a non lasciarmi trascinare a fondo dal suo peso. Attento a discernere il momento in cui è saggio attendere e capire e quello in cui il nodo di Gordio va reciso in un sol colpo.

Ora faccio un bel respiro e mi tuffo in questo 2021. Ci vediamo, spero, dall’altra parte.

PS

Nota a me stesso: so che un giorno ripasserai da qui. Ricordati che ci hai creduto davvero, ricordati che ci hai provato come mai prima e questo aumenta il dolore. Ma da qualche parte sarai approdato e qualsiasi essa sia, ricordati che sei partito da qui, con un bagaglio leggero e stringendo nel palmo la convinzione che ne sia comunque valsa la pena, a prescindere da come è finita.

35, 2019

Un decennio. Dieci anni che, puntualmente e religiosamente, provo a fermare l’anno che passa, in un post. In questi dieci anni mi sembra che tutto sia cambiato, ma come avrebbe fatto in 100. Persino l’editor di WordPress non è più lo stesso.

Dieci anni di post: 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018

Il primo post lo ricordo ancora: avvolto in un accappatoio, ero in una suite con vista mare, a Genova, ottenuta spendendo tutti i miei risparmi, perché al domani poi «pensaddio», già dal 2009.

35

35 mi sembra un numero da fantascienza, di quelli che «chissà come sarò a 35 anni» quando ne hai 14. Poi ieri sera ero ad una festa dove cantava Carolina Marquez, per cui «chissà come sarò a 35 anni» diventa subito «i bei tempi andati» di quando davvero ne avevi 14.

Insomma: vista così sembra una cabala di numeri ordinati e precisi, ma la verità è che se provo a guardare indietro vedo solo una grande marmellata di scelte sovrapposte e caotiche. Lo specchio dice che sono cambiato parecchio, ma se chiudo gli occhi sento ancora le lacrime rigarmi il volto dopo il primo incontro con l’ingiustizia.

E allora cosa sono questi 35? L’età adulta, quella che un decennio fa vedevi negli altri, senza sapergli dare un nome. Quel modo di sorridere, ma senza arrivare in fondo agli angoli della bocca, quel modo di tuffarti nelle cose, ma senza rincorsa. Ma non è minore intensità, solo andare piano, perché portarsi dietro il passato ti rende un po’ lumaca: hai sempre un rifugio con te, ma vai lentamente.

2019

In realtà ho poco da dire sui 35. Un po’ di più sul 2019: nonostante gli anni dispari mi abbiano sempre portato bene, questo è stato «brutale». Se gli anni passati ho sempre considerato l’arrivo, il 2019 s’è imposto per il percorso. A ostacoli, eufemisticamente.

Parole

Il 2019 è stato un anno pieno di parole. Quelle di lingue come lo spagnolo, sempre più presente nella mia quotidianità. Quelle non dette, perché amare significa anche pesare bene i pensieri prima di agitare la lingua. Quelle ricevute in dono e che cambiano tutto, perché bruciano in pochi istanti anni di certezze e ti lasciano le dita nere di cenere quando provi ad aggiustare le cose.

Le parole sono inafferrabili e mutevoli: ora affilate come lame che trafiggono, ora pesanti come sassi scagliati da grande distanza. Ma anche leggere come piume o complici come uno sguardo.

E così questo 2019 è stato definito dalle parole anche se per la prima volta dopo tanto tempo, queste parole sono state pronunciate da altri. Parole che hanno appiccato incendi e che bramano ancora distruzione. Non mi è ben chiaro cosa ci farò con tutto lo spazio vuoto che hanno lasciato, ma di certo andrà riempito in qualche modo.

Inseguire

È stato un anno che mi ha fatto correre parecchio, ma non è stata una fuga, solo un affanno. Quello che succede quando insegui qualcosa senza riuscire a raggiungerla, è che dopo un po’ ti rompi i coglioni. La ragione per cui stai correndo inizia piano piano a scivolare in fondo alla lista delle priorità e ti trovi a pensare che in fondo «chissenefrega».

Però non ti fermi, al massimo rallenti, perché poi ti ricordi che no, sarà pure faticoso, ma guardando quelli che si fermano hai sempre pensato di voler essere diverso. Non migliore né peggiore, solo che a te non piace fermarti, se non quando ti spezzano le gambe e non riesci a proseguire sui gomiti.

Perché in fondo il punto è tutto qui: provi a smettere, ma qualcosa ti urla dentro che «palla di lardo muovi quel culo» perché non siamo qui per fermarci a piangere e quindi alla fine continui a correre anche se quello che insegui ti ha già staccato, come Bolt, allo sparo di partenza.

Lasciare andare

Il 2019 è stato un enorme esercizio di «lasciare andare». Ok, per la maggiore è stato più un perdere e basta, ma in fondo si chiama nuotare anche quando stai affogando.

«Lasciare andare» è un esercizio difficile, ma quando te lo impongono scopri che è vero quello che dicono tutti: ti lascia più leggero. Solo che questa conclusione è un po’ misera (e questo non te lo dicono). Tipo quando vai dall’andrologo per farti prescrivere degli esami (grazie, 2019) e non ti spiegano esattamente cosa si intende per controllo: esci che ti dici «be’ almeno è tutto a posto», ma la verità è che hai «lasciato andare» la tua verginità anale.

La verità sul «lasciare andare» mi sembra questa: in molti casi è l’unica opzione praticabile per andare avanti. Tipo la scelta migliore dopo aver scartato tutte le altre o la ragazza che non baceresti mai, ma è l’unica disposta a farlo.

Quindi si fa e sembra avere un effetto positivo, ma attenzione: sembra. Nel senso che l’effetto positivo non viene dal lasciare andare in sé, ma solo dal fatto che siamo riusciti a muovere qualche passo in avanti. È da lì che arriva, quel benessere. E allora sì, ci sentiamo più leggeri ma solo perché abbiamo accumulato malessere ostinandoci a restare fermi su una posizione. E quindi: andare avanti, sempre. Perché tanto non hai molta scelta.

Impotenza

Mai come quest’anno trascorso, ho visto persone che amo soffrire enormemente. Per causa mia, anche se mai per mia volontà, o meno. Certi momenti di questo 2019 me li porterò sempre dentro, qualcuno non l’ho ancora neppure metabolizzato per bene. Tutti mi hanno lasciato un grande senso di impotenza. Non riuscire a far arrivare quello che hai dentro alle persone che ami è forse la sciagura più grande.

La lezione del 2019 è stata però un’altra: a volte il problema non è la tua capacità di passare delle cose, né di accoglierle. A volte è che due stelle sono parte della stessa costellazione solo negli occhi di chi guarda, perché nella realtà si trovano ad anni luce di distanza, in parti dell’universo completamente differenti. La «vicinanza» è più una questione di superficialità che di profondità.

E questa è un’impotenza diversa: non ti usa violenza per impedirti di fare qualcosa, ma ti lascia libero di scoprire la totale inadeguatezza di tutto quello che fai. Come voler portare via tutta l’acqua del Mediterraneo: non importa se usi un cucchiaio, un secchiello o le tue mani, comunque il risultato non cambierà.

Amare

Caro 2019, sei stato un anno pieno di brutte cose, ti saluterò volentieri pur sapendo che non sarà un addio e scivolerai come un’ombra nel 2020 in arrivo. Tuttavia ho una cosa per cui ringraziarti, mi hai mostrato aspetti dell’amore che non conoscevo.

Mi hai mostrato che in fondo le brutte esperienze tendono a monopolizzare la narrazione e i pensieri, ma solo perché tendiamo a dare per scontate le cose belle, soprattutto nell’amore.

Mi hai mostrato che amore e rabbia si accompagnano spesso sottobraccio e non puoi accogliere il primo pensando che non si accomodi anche la seconda. Ma se questo è vero – e lo è – allora deve essere possibile anche parlare all’amore ogni volta che è la rabbia a dividerci.

Mi hai mostrato che probabilmente non è affatto vero che qualsiasi problema abbia una soluzione, ma se stringi la mano giusta puoi sentirti meno smarrito. Ed è in questo gesto semplice come l’acqua che si addensa l’essenza dell’amore, molto più che in tutte le belle parole che inebriano come il vino.

Ciao

Quindi ciao 2019, anche se ho la sensazione che non andrai via così in fretta. Però una cosa la so: io sono ancora in piedi. E riparto da qui per affrontare il 2020.