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39, 2023

Oggi* è il mio compleanno, da 39 anni. Oggi è anche la fine di un anno in cui ho perso tre cose: 100.000 euro, un dente e un amore di quelli che ti fanno venire voglia di fermarti perché non ti serve altro.

Come puoi intuire «perdita» è il tema del post di quest’anno. Un post che scrivo ogni anno per riassumere come sono andati i miei 12 mesi, ormai da 14 anni (qui i precedenti

Perdere un dente

Il dente perduto (in realtà 3, ma solo 2 era previsto fossero eliminati) è diventato tale alla fine di una storia che inizia nel 2018. Sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui qualcosa sarebbe successo. Ma l’ho comunque perso all’improvviso e nel modo peggiore. 

Alcune perdite sono così: minacciate eppure immediate. E lì sai che nonostante il tempo che avevi per prepararti, alla fine andrai a rincorrere. 

Alcune perdite non ricrescono, sono definitive, cambiano tutto. Starai di nuovo bene dopo ma non sarà un “bene” come lo intendevi prima. Farà male, dovrai avere pazienza, ci sarà un nuovo equilibrio dopo la perdita. 

Questo mi ha insegnato perdere un dente.

Perdere 100.000 euro

Perdere dei soldi invece mi ha insegnato l’enorme differenza fra il peso delle parole e delle azioni. Vanno considerate insieme ma in caso di conflitto vincono le azioni.

Le parole sono importanti perché dicono dove vuoi andare, cosa vuoi essere. Ma sono le azioni a dire dove sei e chi sei.

Questo tipo di perdita mi ha insegnato che siamo più vulnerabili proprio rispetto ai nostri sogni e alla cose “troppo belle per essere vere” che desideriamo. Ci aggrappiamo alle parole proprio quando le azioni non le accompagnano, perché abbiamo il disperato bisogno che le parole realizzino quello che desideriamo.

Ho imparato che è una cosa importante pesare le azioni insieme alle parole. Per evitare grossi errori e perdite più dolorose.

La perdita qui è solo parte del gioco. Un capitolo, non una capitolazione.

Perdere un grande amore

Mi sono convinto che si smette di stare insieme non per il passato (ciò che è avvenuto) ma quando si perde la fiducia in un futuro condiviso.

Si tratta di una perdita strana, una perdita che lascia un vuoto, come un dente. Che lascia amarezza come un investimento andato male.

Il dolore di una perdita d’amore è un deserto vastissimo. Sai che dovrai attraversarlo ed è certo che ogni movimento, ogni goccia di acqua, sarà essenziale. Questo deserto non tollera disonestà o ipocrisie: più menti a te stesso, più sei condannato a vagare in quel dolore che ti prosciuga. Più sei onesto con te stesso, più il tuo percorso è dritto e puoi sperare di attraversare questo deserto perdendo molto ma non tutto. Che poi attraversandolo ti perdi e capita a volte che esci da questo deserto dallo stesso punto in cui sei entrato. Il punto è lo stesso, ma tu sei molto diverso.

Mi rifiuto di pensare che il dolore della perdita misuri davvero il valore di quello che hai perso. Il valore dell’amore si misura da quanto ti fa stare bene, non dall’impossibilità di sopportarne la perdita. Da quello che ci metti dentro sorridendo, non da quanto ne hai nostalgia.

Perdere un amore è una perdita strana perché è come la talea di una pianta. È una perdita, ma anche la possibilità di una moltiplicazione. Non è una perdita definitiva. 

Essere causa di una perdita

E quando siamo noi a causare una perdita? Come si sopravvive all’idea di aver perso qualcosa quando le nostre intenzioni erano le migliori? 

Sono stato cresciuto in una famiglia fondata sui migliori valori del cristianesimo, tra cui il perdono. I miei genitori mi hanno insegnato che perdonare qualcuno è difficile. Ma ancora più difficile è chiedere perdono. 

È difficile perché richiede una presa di coscienza. Ma soprattutto perché è un’azione. Il perdono non si chiede a parole ma con un atto che marca una posizione. 

Puoi anche non riceverlo, il perdono che cerchi. Ma chiederlo è già di per sé una liberazione: le perdite peggiori della mia vita sono quelle che mi sono portato dentro troppo a lungo nella difficoltà prima di tutto di perdonare me stesso perché non riuscivo innanzitutto a chiedermi perdono.

Una perdita è davvero una perdita?

Ogni perdita ti toglie qualcosa. A volte ricresce, altre volte no. Ma tutte le volte disegna nuovi equilibri. Non è qualcosa in meno ma qualcosa di diverso, se la accogli.

C’è un momento di qualsiasi perdita che mi ha sempre affascinato. È un istante in cui il tuo percorso si allontana dalla traiettoria che avevi tracciato e ti aspettavi avresti seguito. In quell’istante hai ancora l’impressione che basti allungare un braccio per afferrarla, la vecchia traiettoria. Basta poco per sistemare ancora le cose. Un po’ come il traghetto che si stacca dalla riva ma ancora in fondo solo pochi metri lo separano dal molo. Eppure una volta staccato, pochi metri valgono come chilometri. È ormai un nuovo equilibrio, anche se il vecchio è ancora visibile.

Contro la perdita non puoi fare molto, puoi solo decidere come reagire. Che comunque non è così poco.

In queste settimane ho sentito più volte riproposta la teoria de “la persona più importante da amare sei tu perché è l’unica che non ti deluderà”. È una teoria affascinante basata sull’idea che se la tua esistenza deve avere un centro, allora quel centro devi essere tu stesso. Investire su stare bene con te stesso ti mette al riparo o modera gli effetti di una perdita.

Mi è sempre sembrata una teoria idiota e pericolosa.

Idiota, perché qualsiasi perdita (salute, soldi, affetti) porta dolore e il dolore ha questo ruolo: bruciare il superfluo e costringerti a fare i conti con te stesso (che per definizione non puoi essere il superfluo, nella tua vita). È un fatto. È come dire che in caso di incendio l’importante è non bruciare.

Pericolosa, perché se è vero che ricentrarsi dopo una perdita è importante, questo non può essere un programma di vita. È un’ottima misura di emergenza, ma non per questo è un ottimo approccio alla vita. Nessuno può vivere bastando a se stesso. Continueremo sempre a rischiare i nostri soldi, la nostra salute, la fiducia e i sentimenti.

Persino gli anacoreti erano animati da una motivazione trascendente. Allora ricentrarsi è giusto ma è una fase temporanea, non puoi “amare te stesso” e basta. Non è felicità, è paura. È paura di una perdita possibile. Possiamo imparare ad amarci davvero solo misurandoci con gli altri, con le nostre ambizioni e desideri, rischiando di perdere. Costretti a disegnare un ordine di priorità.

Ho perso molto quest’anno. È stato doloroso e lo è tutt’ora. Ma so per certo che succederà ancora perché perdita è uno dei tanti nomi che possiamo dare al cambiamento. Ma guardare al dolore della perdita e basta sarebbe ingrato. Un po’ come giudicare la cena al ristorante soltanto da quanto il conto è caro. 

Davanti al rischio di star male per una perdita la domanda è solo una: ne vale la pena?

*Il mio compleanno è il 6 Dicembre. Ma questo post ha richiesto qualche giorno in più perché ho salutato i 39 anni a letto, con la febbre e la faccia rotta da un chirurgo maxillo-facciale

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 7 del mese 12 dell'anno 2023. Nessun commento — .

38, 2022

A cosa serve una bugia?

Esistono diverse sfumature di bugia: le calunnie, le parzialità, le omissioni. Ma tutte condividono la stessa natura. A cosa servono? Secondo me: tutte le bugie sono aggiustamenti della realtà.

Questo 2022 è stato un anno denso di eventi per me, eventi rari che hanno cambiato molto di me e della mia vita. Questo post, fedele a una tradizione iniziata nel 2009, è il tentativo di catturare l’essenza dell’anno appena trascorso. Un anno di viaggio in più per il pianeta, un anno in più del mio viaggio insieme al pianeta. Un anno in cui ha molto senso utilizzare la parola «rivoluzione» per entrambi i viaggi.

A questo punto è necessario fare una premessa. Questo 2022 mi ha proposto un nuovo punto di osservazione, quello di chi le bugie le subisce. Ma questo post non parlerà del martirio di chi subisce una bugia. Conosco molto bene il mio usuale punto di osservazione: quello di chi le bugie le costruisce. Non ci sono innocenti qui. Questo post parla di quello che ho visto nel mio 2022, di cosa mi ha sussurrato o urlato, di quello che spero mi abbia insegnato. Iniziamo.

Le bugie, dicevamo, sono «aggiustamenti della realtà». Ma perché sono così diffuse? Perché la realtà è problematica, complicata, spesso dolorosa. Ma soprattutto: la realtà non esiste. Esistono solo le interpretazioni che ne facciamo. Tutto quello che ci circonda è interpretazione: dei dati raccolti dai nostri sensi, delle astrazioni del nostro cervello. E cos’è l’interpretazione? Un altro aggiustamento della realtà: scegliamo noi cosa connettere e scegliamo noi cosa tralasciare. Ecco che non possiamo conoscere la realtà, ma solo sue approssimazioni. Provate a prendere dell’LSD se non mi credete.

Quindi noi viviamo già in una realtà “aggiustata”, sulla base delle nostre interpretazioni prendiamo decisioni che generano conseguenze che generano altre interpretazioni. Le bugie sono solo aggiustamenti con steroidi, interpretazioni semplificate, approssimazioni di scarsa sostanza.

«Eh, un momento, ma i fatti?» mi direte. Bè, davvero i fatti esistono al di fuori delle interpretazioni? Esistono eventi, esistono dati, ma è il modo in cui li connettiamo che genera la realtà. I fatti sono solo una porzione di realtà che noi decidiamo essere autonoma dal resto. E questo mi porta dritto al primo grande accadimento che ha modellato il mio 2022. Per la prima volta in vita mia, a Marzo, mi sono trovato davanti una lettura di “eventi” totalmente falsa, ma completamente reale negli effetti che ha determinato. Come faccio a dire che la lettura era falsa? Perché nel caso in specie addossava a me un’intenzione e un corso d’azioni che non ho mai posto in essere (almeno su ciò che penso e faccio, posso considerarmi l’esperto massimo). Era quindi una bugia? Sì perché quell’interpretazione di eventi era un’interpretazione falsa nel senso che ricostruiva una direzione e una intenzione (in capo a me) che non ho mai avuto.

Anche se non era impossibile. Le bugie anzi non lo sono mai. Sono sempre verosimili. Quell’interpretazione non è molto aderente agli eventi, ma è possibile. È una delle molteplici interpretazioni che si possono dare degli eventi accaduti. Occam direbbe che non è di buona qualità, ma cionondimeno è possibile.

E qui arriviamo a una differenza fra bugie e interpretazioni. Le bugie sono aggiustamenti della realtà preferiti. Presuppongono a monte un desiderio o una paura che non è figlia dell’interpretazione, ma la precede. Ed è proprio in virtù di quel desiderio o di quella paura, che le nostre migliori qualità analitiche sono piegate alla bisogna. A volte senza che ce ne rendiamo bene conto (in fondo si dice avere un desiderio o avere paura. Ma quando proviamo l’uno e l’altro percepiamo che siamo desiderio e siamo paura).

Questa interpretazione ha modellato la mia vita. Probabilmente anche per gli anni a venire. Ho provato una rabbia sorda e cieca, degna di Orlando senza senno che sradica foreste. Ma passata quella mi è rimasta dentro una grande tristezza. Perché alla fine è questo che ti lascia una bugia, quando la scopri, in fondo alla rabbia e alla sofferenza. Una domanda triste: «davvero è stato più utile a qualcuno tutto questo?».

Quindi le bugie sono interpretazioni possibili della realtà, ma anche tendenziose: sono modellate a priori da un desiderio o da una paura.

Un’altra caratteristica delle bugie è che sono un sistema. Proprio perché sono le interpretazioni più deboli degli eventi, prima o dopo vengono sfidate dalla realtà (o meglio: dalle interpretazioni migliori della realtà). E per tenere in piedi una bugia assediata da venti e maree della realtà come un palazzo con le fondamenta deboli, puoi fare solo due cose: abbatterlo e ricominciare da capo, ammettendo l’errore. Oppure costruirne uno di fianco per dare sostegno al primo. E poi un secondo, e poi un terzo. Così facendo aumenti temporaneamente la stabilità della prima menzogna, ma anche la spettacolarità del crollo. Certo, ci sono bugie che durano decenni, forse anche secoli. Perché in fondo si perde traccia della prima interpretazione e ormai da quel primo edificio s’è generata una città gigante. Ma questo richiede uno sforzo enorme, lungo una vita. E questo ci porta a un’altra caratteristica.

Le bugie sono costose. Diciamo che è legato all’essere insostenibili. All’inizio non sembra così, come pagare la prima rata del mutuo. Ma se il mutuo durasse tutta la vita, con rate di importo variabile incrementale? Ecco le bugie sono un po’ così. E con cosa si pagano? A volte in denaro, ma spesso con pezzi di sé. Molto più costoso. Per mantenere una bugia devi convincerti che sia vera. Anche quando il desiderio o la paura che l’ha generata, cessa di esistere. O diventa meno terrificante del sistema di bugie che hai messo in piedi.

Le bugie creano distanza. Pagare con “pezzi di sé” è una metafora. Ma credo catturi bene la questione. È un po’ come mettere la proverbiale «polvere sotto al tappeto», devi accumulare da qualche parte quello che non puoi mostrare a nessuno e l’unico posto dove puoi metterlo è dentro di te. E come fare posto a questo deposito di scorie radioattive? Cedendo pezzi di sé. Dedicando attenzione e tempo al mantenimento del deposito radioattivo, si negano agli affetti e alle cose belle che ci circondano. Non inviti mai davvero nessuno nel tuo cuore, perché hai il terrore che possa chiederti «e questo cos’è?» indicando quel bel fusto fluorescente riposto nell’angolo.

Poi: le bugie sono ingrate. Inizialmente continuano a far parte della realtà come da progettazione iniziale. E questo è esattamente quello che vogliamo, quando le progettiamo: allineiamo gli altri ad una realtà che ci va bene (o che almeno non ci va troppo male). Ma una volta partorite, le bugie non obbediscono più tanto. Anzi tendono a governare le nostre azioni tanto quanto quelle degli altri. Finché non vengono scoperte e allora è un incubo: da strumento che abbiamo creato per allineare le decisioni degli altri al nostro volere, ecco che diventano uno strumento in mano a quegli altri, per perseguitarci.

E infine, la mia preferita: le bugie sono una bussola. Questo perché indicano la strada sempre: quando sei tentato dall’usarle, ti indicano esattamente cosa non fare. Quando le usi: ti indicano la direzione del tornare indietro il prima possibile.

In questo 2022 mi sono svegliato dall’altra parte. Mi sono svegliato nei panni di chi le bugie e le omissioni le subisce. Questo non fa di me un martire, anzi, credo che sia stata la giusta “punizione” per anni in cui ho seriamente creduto di essere più bravo degli altri a spacciare interpretazioni aggiustate della realtà. Un risveglio brusco che ha causato la frana di certezze e muri che credevo intoccabili.

La cosa che ho imparato è che quando si parla di bugie non esistono vincitori e vinti. Perdiamo tutti. Sempre. Non è possibile porre rimedio alle bugie, ma è possibile evitare che continuino ad avvelenare il futuro. Un po’ come in quei film dove un’enorme bomba a orologeria minaccia di distruggere tutto. La bomba l’hai fatta tu, ma non esiste il telecomando per fermarla. Però sai dov’è, sai quanto tempo hai e la cosa meno stupida di tutte è andarla a prendere, portarla dove il danno sarà minimo e decidere di farla detonare. Decidere è la chiave.

Il 2022 mi ha insegnato che l’opposto delle bugie non è la verità. L’opposto delle bugie è la problematicità e la complessità. Le bugie servono a difenderci da questo. Ma la buona notizie è che non esistono solo le bugie. Esistono anche le decisioni. Le decisioni sono quella cosa che rende chiaro agli altri qual è l’approssimazione che abbiamo scelto per la nostra vita. Sono quegli eventi che affermano che sì, non abbiamo il controllo sulle cose che non ci piacciono, ma proveremo a raccogliere la paura e il desiderio e a percorrere tutta la strada fino in fondo, senza scorciatoie. Ma soprattutto spiegando alla persona che abbiamo accanto che non abbiamo idea di dove stiamo andando e che ce la stiamo facendo sotto, mentre stringiamo la sua mano.

La sua mano. Mantenere viene da qui, “tenere per mano”. E forse è proprio per questo che le bugie non si possono mantenere. Non hanno una mano da stringere.

PS 1: questo post riassume la lezione più grande di questo mio 2022. Ma non esaurisce certo il mio 2022. Un anno che mi ha regalato dei momenti “bassi” molto profondi, ma la cui profondità non ha potuto mai sfidare l’altezza dei momenti più “alti”. Sono stato molto felice, pienamente felice. E ho grande fiducia nel futuro, grazie a quello che questo 2022 mi ha permesso di accogliere e di imparare

PS 2: questo post sarebbe incompleto senza un pensiero dedicato a tutte le persone che hanno subito le mie bugie, note o meno. Desiderio e paura mi hanno fatto scegliere la via più breve, di questo mi pento perché non lo meritavate voi e non lo meritavo io. Ma è nel futuro che questo “costo” può diventare “investimento”

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 7 del mese 12 dell'anno 2022. Nessun commento — .

37, 2021

Dicembre 2021, compleanno dei trentasette. Mi ritrovo davanti al computer, questa volta a Dubai e – sì – continuo a pensare che il giorno del proprio compleanno sia un momento per fermarsi a ricordare, pensare, analizzare.

Ma: quest’anno non sono molto da resoconto annuale. Perché più ci penso, più non riesco a trovare soddisfacente la forma usata per tutti gli altri anni (per chi si fosse perso le puntate precedenti: ogni anno, dal 2009, scrivo un post di “bilancio” considerando che la fine dell’anno solare coincide grossomodo anche con un anno di vita in più per me).

Che fare? Cambiare. Ho deciso di raccontare il mio anno attraverso la domanda che più mi ha tenuto impegnato nei miei 36 anni. Eccola: cos’è l’amore?

D’accordo, in effetti è una domanda un po’ inutile (meglio: idiota) per almeno due ragioni. La prima è che si tratta di una domanda che perdura una vita e forse non ha neppure una risposta. La seconda ragione è che tutti amiamo, o smettiamo di amare, continuamente. E quindi non è poi così importante sapere cosa sia l’amore, un po’ come non ti serve sapere cosa sia il tempo per arrivare puntuale al cinema.

Il punto però non è la risposta alla domanda ma i miei tentativi di rispondere a questa domanda, perché mi permettono di raccontare cos’è stato per me questo 2021 e questo trentasettesimo anno d’età. La domanda è rimasta più o meno la stessa negli anni, mentre io sono cambiato parecchio. E nulla ti mostra quanto e come sei cambiato, come misurarti con le cose consuete.

Quindi: nessuno ha la risposta a questa domanda e questo l’ho capito (come tutti) alla fine dell’adolescenza. O forse sarebbe meglio dire che l’adolescenza finisce quando capiamo che nessuno ha la risposta a questa domanda: è la fine del bianco o nero, della teoria della mezza mela, della vittoria schiacciante o morte gloriosa. Non c’è un incastro predestinato a me e solo a me, che mi renderà completo nell’amore certificato dall’incastrarsi perfettamente (non bene o sufficientemente: perfettamente).

Ero felice dell’età adulta perché ci dice che se ognuno ha diritto alla propria, di risposta sull’amore, valida per sé e non per altri, cade così l’ansia di dover trovare la persona speciale fra i diversi miliardi di quelle possibili che popolano il pianeta (diciamocelo: trovare un ago in un pagliaio sarebbe più facile). Ma è anche un po’ pericoloso, perché in fondo non puoi più attribuire alla sfiga il fatto di non trovare la persona giusta (diciamocelo: la teoria della mezza mela è un buon alibi e pure una buona speranza, sempre per via di quei miliardi di possibilità potenzialmente in attesa). 

Comunque sia, dicevamo: sfumature, scale di grigio e sembrerebbe, finalmente, una spiegazione migliore del casino relazionale che si chiama amore. Non c’è più la mezza mela. Quindi: da “trovare” passi a “costruire”. Sicuramente questo spiega perché trovi l’amore vicino a te, fra le persone con cui entri in contatto e non mandando una lettera a un indirizzo a caso in Pakistan. Però certo non costruisci con chiunque, devi trovare qualcuno (esatto, ritorna il “trovare”) che abbia un’idea di amore simile, affine alla tua. Se no la cosa non funziona. Ecco questa cosa io l’ho capita intorno a 27 di anni (sì, potevo far prima) e inizialmente mi rendeva ottimista perché io sono un entusiasta dentro: se la questione è costruire allora dipende da me e se dipende da me tutto è possibile (sì, esatto, sono sagittario). Ma come tutti gli entusiasti dentro (o appunto i sagittario) passato l’entusiasmo passa anche l’ottimismo (che viene sostituito con un nuova coppia entusiasmo-ottimismo nuova di zecca). Però pur avendo abolito il determinismo della mezza mela, in effetti cambia tutto per non cambiare niente. Ci troviamo comunque a dover trovare qualcuno che condivida un’idea di amore affine. E questo significa di nuovo: tentativi, sfiga, disperazione, speranza e poi di nuovo tentativi, ecc. ecc.

E può essere pure peggio, come quando ti sembra che funzioni tutto (e magari per anni funziona tutto) e poi improvvisamente scopri che non funziona più e forse funzionava solo nella tua testa. Almeno la teoria della mezza mela poteva essere usata per dire: “è andata così”. Pensavo fosse la mia mezza mela e invece no. Tra tutte queste mezze mele può capitare di sbagliarsi. Ma nella teoria dell’affinità succede che scavi con passione una bella fossa profonda e poi dopo anni scopri che tu stavi gettando le fondamenta del Burj Khalifa, mentre l’altro stava solo facendo una piscina per l’estate. Insomma: non puoi neppure incolpare il destino che almeno faceva mezze mele di taglie diverse, ma non ti avrebbe mai rifilato una mezza banana.

Ma cosa c’entra questo con il mio 2021? Ecco, arrivo al punto. Nel 2021 questa domanda (“cos’è l’amore?”) mi ha regalato uno spettro di riflessioni completamente nuove. 

La prima riguarda il mio lavoro. Una delle cose che ho amato di più in questi 37 anni. O meglio: ho sempre fatto delle cose che ho amato profondamente un lavoro. Sono stato molto fortunato in questo percorso pieno di accidenti che avrebbero potuto farmi molto male e invece mi hanno fatto scoprire, imparare e crescere attraverso la triade fondamentale di: sofferenza, gioia e sticazzi. 

Questo tipo di amore è diventato maturo, ci guardiamo come una coppia stanca: stanchi per mollarci e ricominciare, stanchi per continuare come abbiamo fatto fin qui. Ci amiamo dal 2008 e non siamo mai rimasti uguali a noi stessi per troppo tempo. Ma con grande onestà, sappiamo che il 2022 sarà necessariamente un anno di nuovi equilibri: saluterò definitivamente l’insegnamento dimettendomi dal mio (ultimo) incarico da docente (allo IULM) e interrompendo così questa “relazione” che ho fortemente voluto e che mi ha tenuto appassionato fin dalla prima Ninja Academy nel febbraio 2010. Sono stati 12 anni vissuti intensamente, ho conosciuto decine di migliaia di persone (letteralmente!) e soprattutto (confesso!) ho imparato più di quanto abbia insegnato. Mi sono interrogato molto sul lasciare tutto questo. Non saprei spiegare cosa sia venuto meno, devo ancora capirlo, ma di certo è venuto meno qualcosa. L’insegnamento non è un mestiere: è una vocazione e proprio per questo smetto, per evitare che diventi un mestiere. La vocazione è una chiamata cui rispondi senza sapere bene perché ma sentendo bene perché. Come nelle relazioni di lungo periodo, lasciarsi è doloroso, ma anche doveroso, quando capisci che non hai un vero motivo per lasciare, ma ti manca un motivo per andare avanti. Ci ho messo 3 anni ad arrivare a questa conclusione sull’insegnamento e inizio a orientare questo pensiero anche all’amore per la comunicazione e la vita di agenzia.

La seconda riflessione mi ha portato (sorprendentemente) alla conclusione opposta: a volte, nelle relazioni di lungo periodo, è bene prendersi dei momenti di pausa, quando non sai cosa sta succedendo o sei stanco. Arrivare a questa conclusione mi ha fatto vergognare un po’, perché sono sono sempre stato un convinto evangelizzatore dell’inutilità delle pause di riflessione in un rapporto (in realtà credo di aver sempre detto “sono una stronzata da vigliacchi”). Eppure in questo 2021 ho vissuto una cosa che mai mi sarei aspettato: ho smesso di leggere. Per un lungo periodo. È qualcosa che mi ha profondamente scosso, i libri e la lettura sono stati il mio primo amore da quando ho memoria. Ho pensato alla causa, ma trovarla non mi ha aiutato. Quello che mi ha aiutato è stato smettere di voler risolvere a tutti i costi il problema. Mi sono preso una “pausa di riflessione” (ma sarebbe più corretto chiamarla una pausa, perché avevo già riflettuto abbastanza). Quest’estate ho riempito la valigia di libri, come di consueto, però con poche speranze. E invece, dopo oltre sei mesi di digiuno, mi sono ritrovato a divorare parole, pagine e volumi. Come se nulla fosse successo. La cosa che ho imparato è che se sei dentro al problema allora serve innanzitutto distanza. E quando ti sei allontanato a volte fatichi proprio a vederlo, il problema: era lì, ne sei certo, lo potevi toccare. E ora che sei ritornato dopo essere stato lontano, improvvisamente non c’è più, s’è risolto da solo. O forse il problema eri tu e avevi bisogno di spostarti da te stesso per tornare a essere te stesso (lo so, sembra una frase senza senso, ma perché la fisica quantistica allora?). 

Quindi, fin qui: amore significa che occorre mollare, anche senza un chiaro motivo per farlo. Ma significa anche l’opposto, cioè che bisogna aspettare anziché mollare, quando non si ha un chiaro motivo per prendere una qualche decisione. Insomma: non si capisce una mazza (direi: proprio come la fisica quantistica).

E questo mi porta alla terza e ultima riflessione. Se è vero che a un certo punto capiamo che la mezza mela non esiste e amare significa farsi il culo per costruire qualcosa con qualcuno che la pensi in modo affine a te, a un altro punto capiamo anche che è davvero difficile capirci qualcosa. La terza riflessione riguarda proprio questa difficoltà. Da cosa dipende? Davvero siamo così scarsi a scegliere su chi e cosa investire? Non credo. Il vero problema è probabilmente che ciò di cui ci innamoriamo può cambiare, nel tempo. Ma soprattutto che noi cambiamo, nel tempo. Il mio 2021 mi ha mostrato come io sia cambiato, in modi che mi hanno sorpreso positivamente e in altri di cui ho avuto paura. 

E infine: il punto non è cambiare o non cambiare. Cambiare in un modo o in un altro. Ma darsi la possibilità di cambiare insieme. Altrimenti è intrattenimento e vale tutto.

Questo cambiare insieme, richiede qualcosa che mi ha sempre fatto paura. Aprirsi. Chiedere. Rispondere. Abbracciare i problemi, anziché distogliere lo sguardo. Ciascuno di noi contiene una moltitudine e quello che mostriamo agli altri non è identità, ma un riflesso momentaneo e instabile. Se ti distrai è un attimo: i rapporti vengono modellati più da ciò che teniamo per noi che da quello che diamo.

Almeno questa è la mia paura ed è stata spesso anche il mio destino.

Il mio 2021 è iniziato con una perdita. Una perdita però diversa dalle altre, in un modo che solo adesso – alla fine di questo anno – inizio a comprendere. L’ho messo nella categoria “fallire facendo la cosa giusta”, molto diversa dalla solita che è “fallire mandando tutto a puttane con una fragorosa minchiata” (arte di cui sono già cintura nera).

Questo 2021 è iniziato con una perdita, ma resterà nella mia memoria come un anno di grandi fortune. La fortuna di amare e sentirmi amato, la fortuna di ritrovare chi avevo dato per perso, la fortuna di esplorare terreni impervi, la fortuna di potersi porre domande, di tentare, di sbagliare o di non fare assolutamente nulla, la fortuna di poter stare ad aspettare, guardando un Botticelli.

Non so cosa sia l’amore ma una cosa mi è chiara: accade, mentre siamo concentrati a cercare la risposta.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 12 del mese 12 dell'anno 2021. Nessun commento — .

36, 2020

E rieccoci qua. In un luogo che ormai sembra solo servire a tenere traccia degli anni che passano. E siamo all’anno 12, registrato qui, dopo il 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019. Riassunto brevissimo delle puntate precedenti: il blog è il punto di partenza di molte cose che ho costruito, ho smesso di frequentarlo assiduamente ma continuo romanticamente a tenere viva questa specie di tradizione del post annuale. Fine del riassunto (avevo detto che era breve).

36

Ed eccoci al salto della staccionata. Varcati i 35, siamo ufficialmente più vicini ai 40. Non ho ancora capito cosa questo significhi, ma me lo sono sentito ripetere così tante volte che immagino significhi davvero qualcosa.

Per il momento, a parte più chili e meno capelli, non noto grandi differenze. O forse sì. Ma non ho ancora capito se dipendano dall’anno in più o dall’anno 2020, probabilmente lo scoprirò fra un po’ e onestamente non sono neppure troppo ansioso di farlo.

Che persona sono diventata dopo 36 anni? Quest’anno è stato particolare per tutti e io sono arrivato all’incontro con una qualità che non sapevo di aver maturato: il male non s’appiccica più. In passato ho sprecato un’enorme quantità di tempo in guerre, vendette, dimostrazioni di forza. Il modo più facile di ingaggiarmi in qualcosa era attaccarmi.

Il regalo dei 36 anni è la scoperta che davanti alla cattiveria gratuita o motivata (solo nelle intenzioni di chi la mette in atto), arriva prima la delusione per lo spreco di tempo rispetto alla proverbiale rabbia che smuove le montagne. E lo stesso succede con le cose che non sono ascrivibili a cattiveria, ma che mi fanno soffrire indicibilmente. La sofferenza non è più una minaccia esistenziale, ma un torrente di acqua gelida in cui riesco a fare il bagno, seppur tremando. Trasformare la sofferenza in rabbia è qualcosa che mi ha permesso di sopravvivere a tanti disastri ma a costo di immagazzinare scorie tossiche per produrre le mie bombe atomiche.

Non serve più. Forse a furia di sentir parlare di sostenibilità, sono diventato più sostenibile anch’io nelle mie risposte alla sofferenza.

2020

Il 2019 è stato emotivamente faticoso. E rido oggi (rido proprio, non sorrido) a pensare che le speranze che avevo evocato nel 2019, siano andate a sbattere contro questo 2020. Si tratta della dimostrazione, neppure troppo necessaria, di tre leggi fondamentali dell’Universo. La prima: al peggio non c’è mai fine, quindi sii grato per la sofferenza che puoi sopportare. La seconda: qualsiasi cosa pensi che possa accadere domani, bè la verità è che non sai proprio nulla. Quindi dato che siamo (e saremo sempre) ignoranti, meglio tuffarsi nel futuro con il sorriso e i desideri tirati a lucido, perché una buona rincorsa rende il tuffo spettacolare e memorabile anche quando non hai tecnica (la terza e legge è: non prendere mai sul serio nessuna legge che si spacci per universale).

Il 2020, dicevamo. Be’ almeno per quest’anno possiamo dire senza dubbio che è un anno come nessun altro.

Perdere

Probabilmente questa è la parola che un po’ tutti indicheremmo come etichetta esplicativa di questo 2020. Perdita di libertà, perdita di persone care, perdita di rapporti esplosi o evaporati, perdita di sguardi, abbracci, risate. Perdita di cene e concerti, perdita di fiducia, perdita di salute.

Il mio 2020 non è stato differente dai vostri. Per fortuna ancora risparmiato dal lutto, mi ha comunque portato via la persona a cui tenevo di più.

Però è troppo facile fermarsi alla perdita. La perdita è un’assenza, ma non un’assenza qualsiasi, occupa con un vuoto i contorni esatti di qualcosa che prima era lì, tangibile. La perdita arriva prima del dolore, ma anche questo infine ti assale, rapido, ed è poi l’ultimo ad andar via.

Ma non voglio celebrare la perdita. In fondo anche quando siamo concentrati sulla tragedia dell’albero che cade, la foresta continua a crescere. L’assenza che piangiamo oggi è stata prima il seme che avevamo accolto, ieri.

La sofferenza in ogni forma e grado è il solco che rompe la crosta delle nostre delusioni e abitudini passate ed espone la parte più tenera, dove si posano i semi che germogliano. Solo lì possono diventare parte del giardino che siamo, quando sappiamo nutrirli e proteggerli. Ma anche quando non vogliamo farlo, anche quando siamo decisi ad estirpare ogni minima parte di quello che un tempo ci appariva come un dono e oggi ci disgusta, anche quando questo ha lasciato una voragine in quel giardino. La sofferenza rimesta e un bel giorno, forse, vedremo spuntare un germoglio sconosciuto, che diventerà albero e sarà ombra per tante altre parti del giardino che siamo diventati.

Non prenderà mai il posto di quello che abbiamo perso, ma un’assenza non si riempie. L’assenza svanisce quando smettiamo di notarla e smettiamo di notarla quando ci accorgiamo che la perdita è solo un passaggio. Quando scopriamo che in fondo una parte di quello che abbiamo perso è ancora lì, nel giardino. Che è il giardino. Perché è parte di quello che siamo diventati e lo sarà per sempre, che ci piaccia o meno.

Le perdite importanti sono nere come la cenere: un’ottimo fertilizzante per quello che crescerà dopo.

Credere

Tutte queste considerazioni sulla perdita non hanno senso, se non vogliamo che ne abbiano. Viktor Frakl fondò la sua scuola di psicoanalisi basandosi sull’assunto che ciascun essere umano sia un generatore di significato. E che di base smettiamo di funzionare bene proprio quando smettiamo di digerire la realtà per produrre significato. Non so se sia davvero così, non sono neppure un grande fan della psicoanalisi, ma di certo questa prospettiva aiutò Frankl a sopravvivere all’inferno di Auschwitz.

Qualsiasi accadimento è interpretabile in molti modi diversi, anche concorrenti. Di una serie di accadimenti tenderemo a valorizzare quelli che confermano la nostra posizione, scartando o etichettando come eccezioni, quelli che la smentiscono. Siamo noi a costruire la nostra realtà e una perdita è esattamente quello che – coscientemente o meno – noi vogliamo che sia.

Non credo alle perdite inevitabili né ai finali già scritti. Non credo che le perdite siano un bene. Ma credo che l’unico modo per far sì che non siano un male insopportabile, sia proprio decidere che debbano essere un bene. Lavorare per far sì che la sofferenza sia una pioggia torrenziale ma non diventi palude. E credere che da tutta quell’acqua possa un giorno nascere qualcosa.

Il mio 2020 mi ha trovato pronto. Non immune alla sofferenza, ma pronto a non lasciarmi trascinare a fondo dal suo peso. Attento a discernere il momento in cui è saggio attendere e capire e quello in cui il nodo di Gordio va reciso in un sol colpo.

Ora faccio un bel respiro e mi tuffo in questo 2021. Ci vediamo, spero, dall’altra parte.

PS

Nota a me stesso: so che un giorno ripasserai da qui. Ricordati che ci hai creduto davvero, ricordati che ci hai provato come mai prima e questo aumenta il dolore. Ma da qualche parte sarai approdato e qualsiasi essa sia, ricordati che sei partito da qui, con un bagaglio leggero e stringendo nel palmo la convinzione che ne sia comunque valsa la pena, a prescindere da come è finita.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 24 del mese 12 dell'anno 2020. Nessun commento — .

35, 2019

Un decennio. Dieci anni che, puntualmente e religiosamente, provo a fermare l’anno che passa, in un post. In questi dieci anni mi sembra che tutto sia cambiato, ma come avrebbe fatto in 100. Persino l’editor di WordPress non è più lo stesso.

Dieci anni di post: 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018

Il primo post lo ricordo ancora: avvolto in un accappatoio, ero in una suite con vista mare, a Genova, ottenuta spendendo tutti i miei risparmi, perché al domani poi «pensaddio», già dal 2009.

35

35 mi sembra un numero da fantascienza, di quelli che «chissà come sarò a 35 anni» quando ne hai 14. Poi ieri sera ero ad una festa dove cantava Carolina Marquez, per cui «chissà come sarò a 35 anni» diventa subito «i bei tempi andati» di quando davvero ne avevi 14.

Insomma: vista così sembra una cabala di numeri ordinati e precisi, ma la verità è che se provo a guardare indietro vedo solo una grande marmellata di scelte sovrapposte e caotiche. Lo specchio dice che sono cambiato parecchio, ma se chiudo gli occhi sento ancora le lacrime rigarmi il volto dopo il primo incontro con l’ingiustizia.

E allora cosa sono questi 35? L’età adulta, quella che un decennio fa vedevi negli altri, senza sapergli dare un nome. Quel modo di sorridere, ma senza arrivare in fondo agli angoli della bocca, quel modo di tuffarti nelle cose, ma senza rincorsa. Ma non è minore intensità, solo andare piano, perché portarsi dietro il passato ti rende un po’ lumaca: hai sempre un rifugio con te, ma vai lentamente.

2019

In realtà ho poco da dire sui 35. Un po’ di più sul 2019: nonostante gli anni dispari mi abbiano sempre portato bene, questo è stato «brutale». Se gli anni passati ho sempre considerato l’arrivo, il 2019 s’è imposto per il percorso. A ostacoli, eufemisticamente.

Parole

Il 2019 è stato un anno pieno di parole. Quelle di lingue come lo spagnolo, sempre più presente nella mia quotidianità. Quelle non dette, perché amare significa anche pesare bene i pensieri prima di agitare la lingua. Quelle ricevute in dono e che cambiano tutto, perché bruciano in pochi istanti anni di certezze e ti lasciano le dita nere di cenere quando provi ad aggiustare le cose.

Le parole sono inafferrabili e mutevoli: ora affilate come lame che trafiggono, ora pesanti come sassi scagliati da grande distanza. Ma anche leggere come piume o complici come uno sguardo.

E così questo 2019 è stato definito dalle parole anche se per la prima volta dopo tanto tempo, queste parole sono state pronunciate da altri. Parole che hanno appiccato incendi e che bramano ancora distruzione. Non mi è ben chiaro cosa ci farò con tutto lo spazio vuoto che hanno lasciato, ma di certo andrà riempito in qualche modo.

Inseguire

È stato un anno che mi ha fatto correre parecchio, ma non è stata una fuga, solo un affanno. Quello che succede quando insegui qualcosa senza riuscire a raggiungerla, è che dopo un po’ ti rompi i coglioni. La ragione per cui stai correndo inizia piano piano a scivolare in fondo alla lista delle priorità e ti trovi a pensare che in fondo «chissenefrega».

Però non ti fermi, al massimo rallenti, perché poi ti ricordi che no, sarà pure faticoso, ma guardando quelli che si fermano hai sempre pensato di voler essere diverso. Non migliore né peggiore, solo che a te non piace fermarti, se non quando ti spezzano le gambe e non riesci a proseguire sui gomiti.

Perché in fondo il punto è tutto qui: provi a smettere, ma qualcosa ti urla dentro che «palla di lardo muovi quel culo» perché non siamo qui per fermarci a piangere e quindi alla fine continui a correre anche se quello che insegui ti ha già staccato, come Bolt, allo sparo di partenza.

Lasciare andare

Il 2019 è stato un enorme esercizio di «lasciare andare». Ok, per la maggiore è stato più un perdere e basta, ma in fondo si chiama nuotare anche quando stai affogando.

«Lasciare andare» è un esercizio difficile, ma quando te lo impongono scopri che è vero quello che dicono tutti: ti lascia più leggero. Solo che questa conclusione è un po’ misera (e questo non te lo dicono). Tipo quando vai dall’andrologo per farti prescrivere degli esami (grazie, 2019) e non ti spiegano esattamente cosa si intende per controllo: esci che ti dici «be’ almeno è tutto a posto», ma la verità è che hai «lasciato andare» la tua verginità anale.

La verità sul «lasciare andare» mi sembra questa: in molti casi è l’unica opzione praticabile per andare avanti. Tipo la scelta migliore dopo aver scartato tutte le altre o la ragazza che non baceresti mai, ma è l’unica disposta a farlo.

Quindi si fa e sembra avere un effetto positivo, ma attenzione: sembra. Nel senso che l’effetto positivo non viene dal lasciare andare in sé, ma solo dal fatto che siamo riusciti a muovere qualche passo in avanti. È da lì che arriva, quel benessere. E allora sì, ci sentiamo più leggeri ma solo perché abbiamo accumulato malessere ostinandoci a restare fermi su una posizione. E quindi: andare avanti, sempre. Perché tanto non hai molta scelta.

Impotenza

Mai come quest’anno trascorso, ho visto persone che amo soffrire enormemente. Per causa mia, anche se mai per mia volontà, o meno. Certi momenti di questo 2019 me li porterò sempre dentro, qualcuno non l’ho ancora neppure metabolizzato per bene. Tutti mi hanno lasciato un grande senso di impotenza. Non riuscire a far arrivare quello che hai dentro alle persone che ami è forse la sciagura più grande.

La lezione del 2019 è stata però un’altra: a volte il problema non è la tua capacità di passare delle cose, né di accoglierle. A volte è che due stelle sono parte della stessa costellazione solo negli occhi di chi guarda, perché nella realtà si trovano ad anni luce di distanza, in parti dell’universo completamente differenti. La «vicinanza» è più una questione di superficialità che di profondità.

E questa è un’impotenza diversa: non ti usa violenza per impedirti di fare qualcosa, ma ti lascia libero di scoprire la totale inadeguatezza di tutto quello che fai. Come voler portare via tutta l’acqua del Mediterraneo: non importa se usi un cucchiaio, un secchiello o le tue mani, comunque il risultato non cambierà.

Amare

Caro 2019, sei stato un anno pieno di brutte cose, ti saluterò volentieri pur sapendo che non sarà un addio e scivolerai come un’ombra nel 2020 in arrivo. Tuttavia ho una cosa per cui ringraziarti, mi hai mostrato aspetti dell’amore che non conoscevo.

Mi hai mostrato che in fondo le brutte esperienze tendono a monopolizzare la narrazione e i pensieri, ma solo perché tendiamo a dare per scontate le cose belle, soprattutto nell’amore.

Mi hai mostrato che amore e rabbia si accompagnano spesso sottobraccio e non puoi accogliere il primo pensando che non si accomodi anche la seconda. Ma se questo è vero – e lo è – allora deve essere possibile anche parlare all’amore ogni volta che è la rabbia a dividerci.

Mi hai mostrato che probabilmente non è affatto vero che qualsiasi problema abbia una soluzione, ma se stringi la mano giusta puoi sentirti meno smarrito. Ed è in questo gesto semplice come l’acqua che si addensa l’essenza dell’amore, molto più che in tutte le belle parole che inebriano come il vino.

Ciao

Quindi ciao 2019, anche se ho la sensazione che non andrai via così in fretta. Però una cosa la so: io sono ancora in piedi. E riparto da qui per affrontare il 2020.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 14 del mese 12 dell'anno 2019. Nessun commento — .

34, 2018

Per la trentaquattresima volta, è il mio compleanno. Per la decima, ecco il mio post di compleanno e fine anno.

Agli affezionati di questi anni (c’è ancora qualcuno di voi che era qui fin dall’inizio?), non occorrerà spiegare a cosa servono queste righe. A tutti gli altri, ammesso che qualcuno capiti ancora qui per caso, basterà leggere qualcosa dei post precedenti (eccoli qui, anno per anno: 2017, 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009).

Prima di iniziare, una premessa: questo sarà l’ultimo post di compleanno su questo blog. Non ne scriverò altri.

I bilanci non finiranno qui, resto sempre dell’idea che una volta all’anno faccia bene fermarsi a contemplare la strada percorsa. Smetterò però di farne un post. Dunque, iniziamo.

34

Relazioni fra esseri umani. A 34 anni sono persuaso che le relazioni di successo siano più figlie di un adattamento che di un rapporto causa-effetto. È vero: quando finiscono, a posteriori, le vediamo da una prospettiva differente. È vero: da questa prospettiva sembra tutto chiaro, lapalissiano1, un’evidente catena di nessi causali che ci ha portati all’effetto finale: la rottura.

In realtà: sono stronzate. Perché usare il «senno di poi» significa semplificare per orientarsi nel mare di oscurità in cui siamo immersi: un po’ come unire arbitrariamente stelle lontanissime fra loro e chiamarle costellazioni. 

Le relazioni umane – di tutti i tipi – sono come gli esseri umani stessi: complessi, ricchi ma estremamente fragili. Quello che la natura (e la pazienza dei miei genitori) ha impiegato 34 anni a creare, potrebbe essere distrutto nella durata di qualche palpito mancato. Lo stesso accade alle relazioni: anni e anni di duro lavoro per capolavori che sembrano effimeri. Il punto non è questo però. O meglio: il punto è questo, ma è un punto di partenza, non un punto d’arrivo. 

Quello che penso è che sia difficile spiegare. Pure capire. È come andare al buio a prendere l’acqua nel cuore della notte: la strada che hai fatto mille volte ti sembra chiara nella tua mente, eppure sbagli quasi sempre. La realtà, sotto forma di muro o spigolo, ti rimette quasi sempre a posto. Che sia l’amore, il lavoro, la famiglia o qualsiasi altro parametro dell’oroscopo, l’unica cosa che puoi fare è continuare a dare craniate nel buio, bestemmiando in silenzio, finché non riesci ad azzeccare la via. Chiunque dichiari il contrario mente o si ricorda puntualmente di bere prima di andare a letto.

Fallimenti. Avere 34 anni significa per me avere accumulato molti fallimenti. Nei primi 27 anni, perché ho peccato di eccessivo idealismo, nei successivi 7 anni perché ho quasi sempre puntato sul nero e sul rosso, contemporaneamente. In entrambi i casi una cosa è certa: fallisci più volte di quante vinci. 

Se sei fortunato – e fin qui posso dire di esserlo stato – gli esigui casi di vittoria, ti ripagano di tutte le energie finite nei fallimenti. A prescindere da questo, credo di aver capito appieno solo ora il senso di quanto andava dicendo Churchill2: «Success is stumbling from failure to failure with no loss of enthusiasm».

E a 34 anni mi ritrovo carico di entusiasmo da investire in una relazione nuova, con una persona con cui fino a qualche tempo fa non sarei stato in grado di confrontarmi. Qualcuno con cui ogni giorno provo a usare come concime la merda accumulata in questi 34 anni di fallimenti, anziché farne qualcosa di ingombrante da celare alla vista, come se poi l’odore non si sentisse.

2018

Viaggiare. Ciao 2018, l’anno scorso in questi giorni ero a New York, a celebrare il 2017. Era stato un anno memorabile ed ero pronto a un 2018 giustamente sottotono. Gli anni pari mi hanno sempre riservato brutte sorprese. E invece eccomi qui a dirti che – wow! – hai persino superato il 2017. 

Mi hai regalato molto viaggiare, ho passato a 108 giorni a Santiago de Chile, 54 a Roma, 33 a Catania e il resto sparso per Valencia, Brescia, Bogotà, Cagliari, Como, Venezia, Buenos Aires, Barcelona, Lima, Rio de Janeiro, Valparaiso, Parma, San Pedro de Atacama, Londra, Sofia. Ho imparato uno spagnolo di sopravvivenza, ho incontrato persone incredibili in tutti i sensi possibili della parola, ho imparato molto.

Lavoro. A Febbraio ho festeggiato il mio primo anno con imille, un’avventura nata un po’ per caso, in cui sono entrato con un obiettivo personale di crescita e che mi sta offrendo molto più di quello previsto. Dopo un annetto ho realizzato un piccolo sogno: lasciare il mio team e vederlo andare con i propri piedi, verso risultati più grandi dei miei.

Milano. In questo 2018 Milano ha continuato a crescere ed io con lei. Eppure quest’anno ho passato solo 112 giorni qui. Nel 2017 mi chiedevo cosa fosse «casa», in questo continuo dividermi fra Catania e Milano, lungo ormai 10 anni. Nel 2018 non è arrivata la risposta, ma è diventata inutile la domanda: ho passato la prima estate della mia vita senza la Sicilia e il Mediterraneo, ho passato più giorni a Santiago che a Catania. 

Casa al momento è l’idea del campo-base: al termine di una giornata o al termine di un viaggio: il campo-base è comunque dove hai piantato le tende e lasciato le provviste. È un luogo itinerante, dove sono gli affetti che non puoi portare con te nella scalata. 

2019

Come ho detto, questo sarà l’ultimo post di bilancio. Non lo chiuderò con desideri né con previsioni. Nel 2019 non credo realisticamente di perdere i miei difetti (strutturali) né di deviare dall’apprendimento che sto seguendo. 

Questo post è figlio di una notte di speranzoso entusiasmo passata in una piccola cucina, illuminata dal display di un vecchio macbook prima generazione, scritto appena arrivato a Milano nel Dicembre 2008. 

Per questo lo chiudo con una parola, l’unica in grado di esprimere cosa si prova a partire convinti di raggiungere le Indie, disperarsi in mezzo a un’oceano quando è ormai chiaro che i calcoli erano sbagliati senza sapere neppure dove e perché, per poi gioire di una terra incognita e trovarsi infine a fare la più grande scoperta nella storia delle esplorazioni, solo perché ci si era persi completamente.

Questa parola è: grazie. 

  1. Su Wikipedia, alla voce lapalissiano, è riportata la seguente teoria. Si tratta di una congettura, ma in fondo le congetture sono più affascinanti della realtà. In questo testo ho usato il termine lapalissiano per indicare un’evidenza molto evidente, ma potrebbe anche essere tributo alla stessa logica del costruire costellazioni (interpretazioni) a partire da stelle (fatti) in realtà totalmente scollegati: «Alla morte di La Palice infatti, i suoi uomini proposero questo epitaffioCi-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il ferait encore envie (“Qui giace il signore de La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia”). Tuttavia, con il tempo la effe di ferait (“farebbe”) fu letta esse (a quel tempo le due grafie erano simili), diventando quindi serait (“sarebbe”), e la parola envie (“invidia”) divenne en vie (“in vita”); con il risultato che il testo recitò che egli “se non fosse morto, sarebbe ancora in vita” (si il n’était pas mort, il serait encore en vie): da qui il significato di ovvietà attribuito all’aggettivo» []
  2. in realtà non esiste prova che la frase in questione sia stata davvero pronunciata da Churchill, ma in fondo onora il suo approccio alle grandi sfide che ha affrontato, molto aiutato dall’alcol []
Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 10 del mese 12 dell'anno 2018. 2 commenti — .

33, 2017

Ogni anno, dal 2009, scrivo un piccolo post (questo) che mi aiuta a prendermi del tempo per ragionare su cosa mi è successo. E su come sono cresciuto. Perché tutti cresciamo, dipende dal fatto che ci capitano delle cose, ma il come cresciamo dipende più dalla nostra volontà di pensare a queste cose avvenute, alle risposte che abbiamo dato, agli effetti che queste hanno avuto.

Questa mia piccola tradizione è al nono anno di vita (qui gli anni passati: 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009), nacque per caso quando mi trasferii a Milano (quindi sì, si tratta anche del nono anno della mia temporanea permanenza al nord) ed è legata a un posto in cui mi sento a casa, il Mediterraneo. Ogni anno infatti ho scritto il mio post da un porto del Mare Nostrum.

Quest’anno invece, un’eccezione: ho scritto tutto sulle rive dell’Oceano Atlantico, a New York, dove ho passato il mio compleanno, insieme a quello di mia sorella Sara.

Si tratta di un’importante deroga alla regola, ma anche il 2017 in fondo è stato un anno come nessuno dei precedenti.

33

La più importante lezione di quest’anno riguarda la mia capacità di stare dentro una relazione. Lo stare uniti, in qualsiasi tipo di relazione, non è questione di incastro a priori, né di assenza di errori. Quello che ho imparato è che non è neppure questione di volontà, intesa come impegnarsi al massimo per evitare i punti di crisi. A 33 anni ho la convinzione che stare uniti dipenda dall’intenzione a priori: non è la conseguenza di qualcosa, ma la premessa.

Da questa premessa si affrontano i punti di crisi che sono necessari e, in una certa misura, salutari. Salutari non per lo stare uniti in sé, come spesso ci hanno propinato. La crisi è salutare per la crescita individuale: è solo nel momento di crisi che hai modo di verificare quanto è saldo quello che vuoi. Ma soprattutto è grazie a quei momenti in cui tutto è in discussione che hai la possibilità di capire se quello che vuoi è anche quello di cui hai bisogno.

Quest’anno ho perso una persona molto importante. Ho incassato un fallimento molto grande. Inutile girarci intorno: trovare una morale o un insegnamento in ciò è un espediente intelligente per metabolizzare la separazione. Ma la verità resta: fa un male cane. Sì, certe cose capitano, quasi mai per il grosso motivo che viene facilmente raccontato, ma più per la somma di mille piccoli motivi. Sopportabili palle di neve in sé, una valanga che stritola se presi tutti insieme.

Ho visto questa valanga venir giù tante altre volte, in questi 33 anni, quasi sempre per mia causa. Stavolta doveva essere diverso e non lo è stato. Ripartirò da zero, riprovando. Perché la verità è che le risposte nella vita non sono come le ricerche di Google, non si misurano in millisecondi dalla formulazione della domanda. L’unica cosa che ha senso fare è provare. E riprovare. E riprovare. Prendendo tempo. Perché a volte riusciamo a costruire la risposta, a volte no. Ma a star seduti, la risposta non si trova di certo.

Quest’anno ho ricevuto tanto da persone che fanno parte della mia vita ma non sempre della mia quotidianità. A conferma del fatto che i legami solidi non si misurano con la quantità degli attimi ma con la qualità dei momenti passati insieme. E ci vogliono tempo e dedizione per costruire simili legami. Non sempre mi sono sentito capace di simile dedizione, chi mi conosce sa che io e il tempo abbiamo una relazione complicata, però tutto l’affetto che ho ricevuto mi ha fatto pensare che qualcosa forse sono stato stato in grado di costruire: è stata una sorpresa che mi ha reso felice.

In sintesi: a 33 anni mi trovo di nuovo al punto di partenza. Cercando di far funzionare le cose che ho sempre cercato di far funzionare (con scarso successo). Non sapendo da dove iniziare. Ma a ben guardare con una differenza: io sono cambiato. E questo significa in particolare che davanti alle stesse domande, non vivo la stessa ansia. Ci sono le domande, ci sono io che cerco una risposta, nel frattempo ci sono tante cose belle e brutte. Ma so che nessuna di queste cose (le domande, le risposte, le cose belle e le cose brutte di contorno) è un giudizio su di me. Sono tutte cose che dicono qualcosa di me, ma non servono per dimostrare a me stesso chi sono. Perché ormai lo so.

2017

Una delle mie storie preferite della Bibbia è quella di Giobbe. Questa storia mi piace per un motivo: alla fine del racconto Giobbe è più ricco di prima, ma ciò non è avvenuto poco a poco, bensì è passato dall’avere molto, al non avere niente e poi ad avere più di prima. È un «viaggio» che giudicato dal punto di arrivo (Giobbe ha tutto ciò che desidera) è positivo. Ma che ha dentro tanti momenti molto negativi.

Questo mio 2017 è stato un po’ simile alla storia di Giobbe: guardato dal punto di arrivo è stato un ottimo anno, probabilmente il migliore finora. Ma se guardo al suo svolgimento rivedo momenti estremamente belli e momenti davvero terribili.

Forse è proprio questo che lo ha reso speciale: mi ha proposto un viaggio nel buio delle mie peggiori paure e mi ha anche portato a respirare l’aria rarefatta oltre le vette delle mie più sfrenate ambizioni.

In questo 2017 ho avuto conferma dal mio lavoro di una cosa che avevo prima solo intuito: è facile avere ragione quando si scommette che le persone ti deluderanno. O non riusciranno a fare le cose come le avresti fatte tu. Davvero mai le cose vanno come le vogliamo o immaginiamo. Il punto però è che a volte le persone vanno ben oltre le nostre aspettative e in quei momenti siamo ripagati in abbondanza di tutti i fallimenti e le delusioni.

Infine, in questo 2017 ho imparato che qualsiasi organizzazione si può cambiare. Qualsiasi. Ma per farlo occorre avere le idee chiare (facile), il coraggio di guardare in faccia i problemi e ascoltare la prospettiva degli altri (meno facile), la forza di andare nella direzione giusta limitando i compromessi, perché la direzione giusta è l’unica possibile se davvero si vuole cambiare. Spesso per evitare o limitare la parte complicata, il «come» cambiare le cose, finiamo con il cedere sul «cosa» cambiare. E questa è l’unica sconfitta che chiamo fallimento.

Nel 2017, grazie a imille e epico, sono diventato molto più bravo nella virtù della pazienza, che non è farsi andar bene quello che non ci va bene, ma più evitare di essere distratti dal drappo rosso mentre sei impegnato ad infilzare il torero.

Nel 2017 ho avuto l’occasione di osservare da vicino tre persone da cui ho appreso delle grandi qualità di cui faccio tesoro, sono state dei maestri inconsapevoli e mi hanno arricchito come persona e come professionista.

2018

Caro 2018, da te non mi aspetto nulla. Il 2017 è stato un anno fuori dal comune. E conosco abbastanza la matematica da temere gli effetti della «regressione dalla media», eppure li avevo paventati anche alla fine del 2016 e ho invano atteso Godot. Comunque, anche se dovessero arrivare proprio nel 2018, mi troveranno ad accoglierli con il sorriso sulle labbra.

Ciao, 2017. Mi mancherai.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 27 del mese 12 dell'anno 2017. Nessun commento — .

32, 2016

Sono in un bar che porta il nome di una delle storie più antiche della nostra civiltà (Betlem), in una città in cui si parla una lingua che non conosco ma intuisco (Barcellona), bevendo qualcosa che non avevo mai assaggiato prima (Blue Betlem) e che ho scelto a caso, un po’ fidandomi della propensione a provare qualcosa che mi facesse meglio capire cosa questo posto ha da dire.

Non sono rimasto deluso dal cocktail. Così come non sono rimasto deluso da questo 2016, un anno così carico e abbondante da meritare di essere scolpito sulla pietra, come le mattanze migliori dei Raìs di Favignana.

Mi trovo a Barcellona in ossequio alla tradizione di spostarmi ogni anno, in prossimità del mio compleanno, in un porto di mare del Mediterraneo, per fermarmi a riflettere sul piccolo bilancio di un ennesimo anno passato. Quindi, come nel caso del 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009, di seguito si trovano le mie conclusioni sul 2016.

32.

Una costante dei miei bilanci fin qui è stata la tensione (più o meno latente) fra due parti di me, opposte. Quella nichilista, affamata di dominio e libertà (intesa come assenza di legami), che mi piace chiamare il Lupo. E poi la parte romantica, alla costante ricerca di scopo e appartenenza (intesa come necessità di un legame), che mi piace chiamare il Cane Pastore.

Il Lupo interpreta la vita come distinzione ed estinzione. Vive nel paradosso: percepisce la bellezza della caducità e beve sangue perché è qualcosa di vivo, ma per farlo deve uccidere. Il Cane Pastore ha bisogno di morire per qualcosa, è romantico perché cerca la buona morte, quella che incarna la fedeltà suprema ad un legame, ribadito con il sacrificio massimo.

Dopo anni di lotta, con alterni risultati, Lupo e Cane Pastore hanno deciso di mettersi d’accordo. Non si amano, ma sono riusciti a dare vita a qualcosa che non è ancora alleanza ma che è già ben più di una tregua: riconoscono all’altro il diritto di esistere.

Il risultato è stato questo 2016, i cui semi sono stati gettati nel 2015. È stato un anno perfetto da tutti i punti di vista. Ho raccolto i frutti di semine precedenti costate fatica e fede. Ho scoperto che ci sono passaggi a nord-ovest per chi non ha paura di mettere la propria vita sul piatto e sfidare le leggende tramandate dai nostri padri.

Ho scoperto che le persone più pericolose che ho incontrato finora non sono state quelle bugiarde. Bensì quelle che non si preoccupano di sfidare le proprie convinzioni, di coltivare il dubbio, di non vedere buchi e angoli da vicino, preferendo credere alle superfici lisce da lontano. Sono queste persone, armate di ottime intenzioni, a propagare l’idea che esista una soluzione alle cose. Invece delle due-tre possibili. Sono queste persone a sapere tutto quello che si dice in giro circa il mare oltre le Colonne d’Ercole, ma a non aver mai messo piede su una barca.

E io, per lungo tempo, sono stato una di queste persone.

Nel corso del 2016 ho amato quest’incoerenza che mi ha salvato da qualcosa di peggiore della morte per fallimento: una vita di errori senza apprendimento. A 32 anni tocco con mano i frutti di questo cambiamento compiuto, come un frutto maturo che quasi non ricorda di essere stato fiore.

Quest’ultimo anno non mi ha insegnato molto di nuovo ma mi hanno dato conferma di ciò che ho imparato nel corso dei precedenti, in particolare:

• Forse esistono convinzioni definitive, ma non possono esistere convinzioni universalmente valide.

• Chiunque ti insegna qualcosa. Ma succede solo quando ci si predisponiamo ad ascoltare.

• Non ha senso agire tanto per fare, ma neppure ha senso pensare tanto per immaginare mondi. Nel primo caso ci si tiene occupati camminando, ma senza una meta. Nel secondo caso si passa da una meta all’altra ma senza aver mai mosso un passo.

• Non esiste un unico sistema di riferimento per giudicare le azioni e la stessa azione compiuta da persone diverse potrebbe avere valori differenti. Per capire davvero le motivazioni di chi agisce occorrerebbe giudicare dalla sua prospettiva, abbandonando la nostra. Ma ho anche capito che a quel punto non ha più significato la ricerca della comprensione, perché saremmo d’accordo probabilmente con chi ha compiuto l’azione che ci ha turbato.

• Nella vita è molto comune accogliere o respingere a priori e sulla base di ciò definire spiegazioni e fatti, piuttosto che il contrario.

2016.

In questo 2016 ho incontrato persone che hanno sfidato le mie convinzioni su un piano diverso da quello in cui mi sento forte. Ho incontrato persone che hanno fatto dell’affetto una catena. Ho incontrato persone irriverenti che hanno fatto un falò con le mie intenzioni. Da tutte queste azioni ho avuto solo del bene.

Ho viaggiato molto nel 2016, rimanendo a Milano solo 144 giorni. Ho visitato posti incredibili e visto esseri umani condurre vite in osservanza di storie e convincimenti diversi dai miei. Ho capito che siamo meno liberi di quanto crediamo, almeno finché non accettiamo che la nostra libertà per qualcun altro abbia un nome diverso e a volte offensivo. Ho imparato che se questo è difficile, esiste comunque una lezione ancora più difficile da accettare: ciò che chiamiamo offesa potrebbe essere chiamata libertà da qualcuno che amiamo.

Nel 2016 ho rivalutato ogni errore o fallimento passato perché è stato come una martellata: mi ha reso affilato e duro, preparandomi per guerre e arene importanti.

Grazie a Epico ho scoperto il valore di un gruppo eterogeneo, grazie a WHY ho saggiato cosa ho imparato negli anni sul dare fiducia. La responsabilità dell’insegnamento allo IULM ha inaugurato per me una fase diversa nell’approccio a questa attività: meno auto-realizzazione e più servizio.

Ma soprattutto nel 2016 è successa una cosa strana: per la prima volta mi ricordo di tutte le persone stupende che – lavorativamente o meno – hanno contribuito a un anno spettacolare in tutto, mentre non provo che compassione per quelle che hanno causato momenti difficili. Non so quindi se il 2016 sia stato un anno davvero differente dagli altri, quanto a rapporto fra cose belle e cose brutte. Oppure se sono io ad aver sviluppato una sensibilità diversa nel giudicare le cose che mi sono capitate.

2017.

Per la legge della regressione dalla media a un anno eccezionalmente sopra la media (il 2016) deve seguire un anno decisamente sotto la media. Non so se sarà così oppure se ridefiniremo la media. Ma di certo non ho paura di scoprirlo.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 9 del mese 12 dell'anno 2016. Nessun commento — .

31, 2015

Prendo gli ultimi giorni di questo 2015 per il mio bilancio di fine anno (una consuetudine che si trascina da qualche anno: 2014, 2013, 2012, 2011, 20102009).

31.

Camminare in equilibrio su una fune è una delle abilità più affascinanti che un uomo possa acquisire. Ma è anche una delle meno utili: difficilmente ci capita di dover camminare in equilibrio su un filo, nella vita di tutti i giorni.

Questo almeno pensavo prima di questo trentunesimo anno. Quest’anno ho imparato che ci sono molte analogie fra vivere ed essere un funambolo.

Uno: Accettare l’esistenza di tutto il resto, senza lasciarsi distrarre.

Sei lassù, ad un’altezza proibita per l’essere umano. Intorno a te il mondo, come non lo avevi mai visto. È bello, è estasi, è paura. La prima reazione è far finta che non esista. Per restare concentrati. Ma lui esiste. È lì. Hai quasi l’impressione di poterlo toccare, se allunghi un braccio. E se ti capita di allungarlo quel braccio, sarà meglio che ti spuntino le ali, perché rischi di dover imparare a volare. Per questo preferiamo non vederlo. Per restare concentrati. Concentrati sul non deragliare. Questo è quello che ho fatto finora, per evitare la fine di Ulisse, smarritosi sulla via del ritorno.

Far finta di nulla non mi ha aiutato. Cedere alla distrazione ha rischiato di uccidermi più volte. Perché mi sono concentrato sulla cosa sbagliata: non perdere l’equilibrio. Questo trentunesimo anno mi ha mostrato che «avere equilibrio» è molto diverso da «non perdere equilibrio» . Anzi, la caratteristica dell’equilibrio non è eliminare tutte le forze che ti spingono a cadere. Ma metterle in concorrenza fra loro affinché si bilancino a vicenda.

Il primo dono di questi 31 anni: la capacità di accogliere. Accogliere queste forze, accettarle e non cercare di annullarle. Ma di metterle in equilibrio.

Due: per andare avanti bisogna concentrarsi sul perché si fa una cosa, non sul perché non si dovrebbe fare.

È abbastanza facile farsi un’idea delle situazioni finché non ci siamo dentro. Da laggiù il funambolo appare incredibile, sospeso. Ma in fondo è solo un uomo che deve mettere un piede davanti all’altro in linea retta. Solo lui, da lassù, sa quante battaglie simultaneamente deve vincere per riuscire a muovere anche solo quel piccolo passo. Il più cruento di questi scontri non è contro il vento. Non è contro la fune. Non è contro il bilanciere. È contro la propria mente. È contro la parte di noi che si focalizza su ciò che potremmo perdere, anziché su ciò che vogliamo acquisire. La lotta più dura è contro la paralisi. Perché sulla fune, come nella vita, non puoi tornare indietro ma solo andare avanti. E una volta mosso il primo passo il dubbio diventa inazione, unico vero pericolo mortale.

Sono stato sempre molto bravo a descrivere i problemi e anticipare i pericoli. Questo mi ha impedito di commettere errori. Ma anche di andare avanti. Ho guardato nel vuoto e ho correttamente passato in rassegna i miliardi e uno modi diversi in cui avrei potuto rischiare di cadere giù. Ma niente di tutto questo mi ha aiutato a restare in equilibrio sulla mia fune.

Il secondo dono di questi 31 anni: la capacità di non pensare al baratro e cercare di muovere i piedi ricordando perché voglio arrivare dall’altro lato della fune.

Tre: la lunga distanza è possibile solo grazie a piccoli passi. Ma è più della somma di piccoli passi.

Sulla fune è solo un piccolo passo per volta. Un piccolo passo possibile solo pensando alla lunga distanza. Ogni volta che il piede tocca la fune occorre ricordare quanta strada è già stata percorsa e quanta ancora ne rimane. Per dosare le energie, affinché ogni singolo gesto venga compiuto come fosse l’unico ma pensato per un arrivo dopo molti passi.

A 31 anni ho il privilegio di essere spesso il più giovane a fare quello che faccio. Il primo. La velocità è sempre stata la mia ossessione, non per arrivare prima di qualcun altro. Ma per sfidare i miei limiti. Per trent’anni sono stato un buon sprinter. Forse troppo tardi, ma ho capito che dopo una breve distanza vinta, ce ne sarà un’altra. E un’altra ancora. È sulla lunga distanza che occorre testare le proprie capacità.

Il terzo dono di questi 31 anni: capire che un cammino è fatto della somma di piccoli passi. Ma non è la somma di piccoli passi a fare un cammino.

Quattro: perdere aiuta a vincere.

La fune è una via che non ammette il superfluo. Tutto quello che porti con te su quella fune stretta è d’aiuto solo se ben bilanciato. Nulla sale sulla fune con successo se non porta con sé un opposto simmetrico. Portare poco e portare solo cose che possono essere bilanciate.

Questo primo anno dopo i trenta ha visto la definitiva chiusura di alcuni capitoli della mia vita. Con cui ho fatto pace. Ho perso qualcosa lungo il percorso, ma ciò mi ha reso più leggero dandomi slancio per le nuove avventure che ho intrapreso. Ho imparato che combattere è importante, ma a volte saper incassare un colpo è più utile che cercare rivalsa. Aiuta a procedere leggeri anziché fermarsi nel passato. La miglior rivalsa è un passo avanti verso il futuro.

2015.

Ciao 2015. Sei stato il miglior anno, professionalmente parlando. Mi hai regalato tanti stimoli ma soprattutto tante conferme.

Lasciai con rammarico la possibilità di un percorso accademico per venire a Milano. E nel 2015 ho iniziato ad insegnare Communication Strategy allo IULM.

Credevo che fosse il momento adatto per un soggetto focalizzato sullo storytelling di brand attraverso foto e video ed Epico è una grande conferma.

Ero convinto che si potesse lavorare focalizzandosi solo sulla Digital Strategy con un team piccolo ma affiatato. Senza neppure avere un ufficio. Contro l’opinione di molti WHY è stata la prova che sì, il mercato premia questo tipo di valore.

Aver avuto ragione è stato gratificante, ovviamente. Ma l’ingrediente più importante di questi traguardi è stato: aver tentato. I motivi per cui questi successi potevano invece essere fallimenti erano molti. Ma sono andato avanti, senza cedere alla paura. Anzi portandola con me, come un peso da utilizzare per bilanciarmi sulla fune. Il 2015 è stato un banco di prova per confermare, sfidandole, le lezioni apprese al costo di tanti fallimenti in questi 6 anni.

2016.

Stai per arrivare. Non posso sapere cosa porterai, ma so per certo che troverai un funambolo allenato ad attenderti. Non posso evitare errori o avversità. Ma posso tenermi in equilibrio bilanciandole con quello di cui sono capace.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 28 del mese 12 dell'anno 2015. Nessun commento — .

30, 2014

E quindi sono trenta.
Inutile ormai introdurre la mia consuetudine di scrivere il post del mio bilancio annuale (se sei nuovo: 2013, 2012, 2011, 2010)

Per prima cosa: una nota agli affezionati. Dal titolo ho eliminato il numero di anni che sono a Milano. A dicembre sono diventati 6. Ma ho deciso di non contarli più. Mi sono sentito sempre di passaggio in questa città. Mi sono sempre chiesto se fosse davvero questo il posto per me. Non ho trovato la risposta. Ma alla domanda, esattamente come ai rintocchi del campanile dietro casa, non faccio più caso. Per cui è ufficiale: la questione non ha cessato si esistere, ma da tornado incombente è stato declassato a pericolo di pioggia.

2014.

È un anno pari. E a me gli anni pari mi risultano un po’ infami. Questo lo chiamerei Colombo. Perché come il buon Cristoforo è partito pieno di certezze ed è andato a sbattere contro qualcosa di nuovo che non si è capito ancora cosa sarà. Io spero: la mia America. Ma ammetto di essere partito per le Indie.

Nel 2014 ho fatto tante cose che avevo già fatto negli anni precedenti. Sono ripassato da luoghi a me noti, eppure è stato tutto diverso. Perché io sono del tutto diverso. Ritrovarmi a decidere di nuovo di cose già provate è stato proprio il modo migliore per misurare questo cambiamento.

Il 2014 mi ha regalato anche una conferma importante: sono ancora capace di scegliere di pancia, solo perché una cosa è giusta (secondo me). Anche se non si tratta della più conveniente. Perché resto assolutamente incapace di farmi piacere qualcosa che dentro di me non è più amata. Questo atteggiamento adolescenziale è bistrattato, ma devo dire che sul lungo periodo mi ha finora regalato grandi soddisfazioni.

Nel 2014 ho toccato con mano quanto sia cresciuta la mia famiglia. Una sorella diciottenne e una sorella laureata. Un fratello che è secondo solo di nascita. Ogni tanto smetto di correre e mi trovo in mezzo ad una famiglia che è specchio della velocità a cui mi sono mosso. Se nel mio mondo tutto cambia insieme a me, nel mondo della famiglia non sono io a dettare i tempi. E mi piace godermi questa marginalità.

La fine del 2014 mi mette davanti alla stessa scelta per la quarta volta. Quattro volte in un anno: vuol dire che avevo bisogno di essere bocciato quattro volte. Io che a scuola sono sempre andato bene, ho imparato come essere bocciati non sia infamia. Può addirittura essere un favore. Capire la domanda non implica automaticamente riuscire a trovare una risposta. Ci vuole tempo. Anche per me. Spero che questo giro sia l’ultimo. Ma il peggio che può capitarmi è solo un’altra bocciatura.

Infine ringrazio il 2014 per le occasioni che mi ha offerto per restituire a Catania parte del valore che mi ha regalato in questi trent’anni. Attraverso il coinvolgimento in iniziative come TEDxSSC, il DML e Meridio News.

30.

Non voglio riassumerli di certo. Ma non riesco a fare di meno di cedere alla tentazione delle considerazioni globali.

La prima: guardavo a questo momento come ad una epifania. Pensavo che sarebbe stato lo zenith della mia vita personale e lavorativa. La summa delle cose che nella vita avevo appreso. La celebrazione delle mie vittorie. Questi trent’anni sono passati quasi in fretta. E più sono andato avanti più ho accumulato solo consapevolezza delle cose in cui mi sbagliavo. Oggi, se mi guardo indietro, la prima parola che mi viene in mente non è: successo.

Primo: scusa.

Scusa, per tutte le volte che ho tirato dritto per la mia strada. Scusa, per tutte le lacrime che ho fatto versare. Scusa, per tutte le volte in cui ero altrove. Scusa, perché ho detto troppo o troppo poco.

Beninteso: rifarei tutto. Tradirei promesse, ruberei fiducia, accoltellerei con la lingua e appiccherei fiamme con lo sguardo. Preferendo la fuga, se la vittoria non è disponibile. Sono state tutte cose importanti per me. Per essere quello che sono. Ma oggi mi scuso perché i motivi per cui l’ho fatto erano meno assoluti di quanto credessi. Chiedo scusa perché dalla mia avevo solo una lingua più tagliente e poco altro. Non chiedo scusa per quello che ho fatto. Ma perché nel farlo non vedevo le persone sedute sul lato delle conseguenze delle mie azioni. Oggi vi vedo e questa è una differenza. Ma non preoccupatevi: non ci saranno grandi cambiamenti di condotta.

Secondo: il senso delle cose è una scelta.

La seconda considerazione riguarda il mutamento del mio nichilismo fatalista. La premessa è rimasta la stessa: alla fine niente ha senso. Ma dato che è così anziché incazzarmi e soffrire, scelgo di dare io un senso alle cose. A scelta. A caso, se necessario. Facevo le bolle di sapone e piangevo perché non le vedevo durare. Oggi esplodono lo stesso ma ho imparato a capire la loro perfezione transitoria. O relativa. E apprezzarla proprio per questo. In fondo l’unico esito certo delle cose immutabili è la noia.

Terzo: non è la realtà che muta a farmi sentire in perenne stato di cambiamento. È il mio stato di cambiamento che fa essere in mutamento perenne la mia realtà.

La terza considerazione è la costanza del cambiamento. Chi mi conosce sa che parlo sempre di periodi di scelta e transizione. Oggi comprendo che ho sempre vissuto in questi periodi perché io mi sento in perenne mutamento. E non viceversa. Per questi primi trent’anni ho pensato che le cose transitorie non avessero valore e che i successi fossero punti di arrivo raggiunti con l’accumulo di fatica quotidiana. Mi sbagliavo. E se ti ritrovi sulla giostra che gira puoi scegliere di piangere perché vuoi scendere o di ridere e goderti la vista dall’unicorno rosa. Prima pensavo che uno dei due modi fosse giusto, l’altro sbagliato. Oggi penso che la più grande conquista non sia fare andare la giostra più velocemente o fermarla del tutto. Ma avere la libertà di piangere o ridere in base a come mi va di fare al momento.

Infine, l’Ultima Grande Verità Transitoria.

Quarto: e se l’albero fosse più libero del lupo?

Per i primi trent’anni della mia vita ho vissuto convinto che noi uomini siamo lupi. Ho ucciso per fame o per paura. Ho mangiato a sazietà da solo e combattuto l’inverno in branco. Ho incontrato limiti perché me li sono dati o mi sono stati imposti da chi è stato più forte di me. Mi sono mosso rapido per assalire o per fuggire.

Oggi mi chiedo se l’uomo non sia più simile ad un albero.

L’albero conosce l’importanza delle radici, per arrivare lontano. Sa quanto ciò che per gli altri è sterco e di cui si disfano volentieri possa essere trasformato in crescita. L’albero non può rifiutare e per questo ha imparato ad accogliere e trasformare, gli eccessi di pioggia come quelli di sole. L’albero aggiunge uno strato alla volta, ma dentro è sempre lo stesso tenero germoglio. Se perde un ramo non insiste. Lo rigenera cercando un’altra direzione. Un albero sano cresce in altezza e sa che arriverà in alto a toccare il sole solo se avrà radici profonde nell’oscurità della terra. Un albero non ha fretta: il suo tempo è il decennio. Un albero sa che gli errori non esistono: lui si biforca per trovare nuove strade. Le direzioni sbagliate diventano comunque sostegno per crescere in nuovi tentativi.

2015.

Per la prima volta non ho aspettative, né progetti su di te. Fai come vuoi. La barca è solida, io padroneggio la pagaia e l’orizzonte è vasto. Che tu sia Poseidone adirato o Eolo benevolo, non mi importa. Qualsiasi cosa avverrà, la affronterò con la sicurezza di chi ha imparato cos’è giusto attraverso l’errore e con il sorriso divertito di chi è certo che ha ancora tanto da sbagliare.

Vorrei ringraziare tutte le persone che ho incontrato in questi trent’anni. Forse vi ho odiati, amati, ammirati, invidiati, studiati, sfottuti, compatiti, emulati. Forse mi avete deluso, maledetto, rimpianto, tediato, inacidito, sorpreso, ucciso. Chissà. Ma una cosa è certa: grazie, perché mai avrei voluto fare a meno di voi.

Mentre scrivo queste righe il 2014 mi offre un’altra grande lezione. Che come tutte le grandi lezioni è amara. Lo scorso weekend, per il mio compleanno, sono stato a Napoli. Passando qualche giorno in città ho sentito Antonio, che non vedevo da anni. Non siamo riusciti a vederci. Principalmente perché non mi sono sbattuto abbastanza, fra i vari piani e cose da fare. In fondo l’idea è sempre quella che «c’è tempo». Stamattina Antonio è venuto a mancare. E di tempo quindi non ce n’è più.

Che io possa fare tesoro di questa lezione, come feci tesoro a suo tempo delle cose che mi ha regalato Antonio.

Le mie dita hanno dato corpo a questo pensiero il giorno 7 del mese 12 dell'anno 2014. Nessun commento — .