Questo è il blog provvisorio di Mushin. Leggi qui per saperne di più.

34, 2018

Per la trentaquattresima volta, è il mio compleanno. Per la decima, ecco il mio post di compleanno e fine anno.

Agli affezionati di questi anni (c’è ancora qualcuno di voi che era qui fin dall’inizio?), non occorrerà spiegare a cosa servono queste righe. A tutti gli altri, ammesso che qualcuno capiti ancora qui per caso, basterà leggere qualcosa dei post precedenti (eccoli qui, anno per anno: 2017, 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009).

Prima di iniziare, una premessa: questo sarà l’ultimo post di compleanno su questo blog. Non ne scriverò altri.

I bilanci non finiranno qui, resto sempre dell’idea che una volta all’anno faccia bene fermarsi a contemplare la strada percorsa. Smetterò però di farne un post. Dunque, iniziamo.

34

Relazioni fra esseri umani. A 34 anni sono persuaso che le relazioni di successo siano più figlie di un adattamento che di un rapporto causa-effetto. È vero: quando finiscono, a posteriori, le vediamo da una prospettiva differente. È vero: da questa prospettiva sembra tutto chiaro, lapalissiano1, un’evidente catena di nessi causali che ci ha portati all’effetto finale: la rottura.

In realtà: sono stronzate. Perché usare il «senno di poi» significa semplificare per orientarsi nel mare di oscurità in cui siamo immersi: un po’ come unire arbitrariamente stelle lontanissime fra loro e chiamarle costellazioni. 

Le relazioni umane – di tutti i tipi – sono come gli esseri umani stessi: complessi, ricchi ma estremamente fragili. Quello che la natura (e la pazienza dei miei genitori) ha impiegato 34 anni a creare, potrebbe essere distrutto nella durata di qualche palpito mancato. Lo stesso accade alle relazioni: anni e anni di duro lavoro per capolavori che sembrano effimeri. Il punto non è questo però. O meglio: il punto è questo, ma è un punto di partenza, non un punto d’arrivo. 

Quello che penso è che sia difficile spiegare. Pure capire. È come andare al buio a prendere l’acqua nel cuore della notte: la strada che hai fatto mille volte ti sembra chiara nella tua mente, eppure sbagli quasi sempre. La realtà, sotto forma di muro o spigolo, ti rimette quasi sempre a posto. Che sia l’amore, il lavoro, la famiglia o qualsiasi altro parametro dell’oroscopo, l’unica cosa che puoi fare è continuare a dare craniate nel buio, bestemmiando in silenzio, finché non riesci ad azzeccare la via. Chiunque dichiari il contrario mente o si ricorda puntualmente di bere prima di andare a letto.

Fallimenti. Avere 34 anni significa per me avere accumulato molti fallimenti. Nei primi 27 anni, perché ho peccato di eccessivo idealismo, nei successivi 7 anni perché ho quasi sempre puntato sul nero e sul rosso, contemporaneamente. In entrambi i casi una cosa è certa: fallisci più volte di quante vinci. 

Se sei fortunato – e fin qui posso dire di esserlo stato – gli esigui casi di vittoria, ti ripagano di tutte le energie finite nei fallimenti. A prescindere da questo, credo di aver capito appieno solo ora il senso di quanto andava dicendo Churchill2: «Success is stumbling from failure to failure with no loss of enthusiasm».

E a 34 anni mi ritrovo carico di entusiasmo da investire in una relazione nuova, con una persona con cui fino a qualche tempo fa non sarei stato in grado di confrontarmi. Qualcuno con cui ogni giorno provo a usare come concime la merda accumulata in questi 34 anni di fallimenti, anziché farne qualcosa di ingombrante da celare alla vista, come se poi l’odore non si sentisse.

2018

Viaggiare. Ciao 2018, l’anno scorso in questi giorni ero a New York, a celebrare il 2017. Era stato un anno memorabile ed ero pronto a un 2018 giustamente sottotono. Gli anni pari mi hanno sempre riservato brutte sorprese. E invece eccomi qui a dirti che – wow! – hai persino superato il 2017. 

Mi hai regalato molto viaggiare, ho passato a 108 giorni a Santiago de Chile, 54 a Roma, 33 a Catania e il resto sparso per Valencia, Brescia, Bogotà, Cagliari, Como, Venezia, Buenos Aires, Barcelona, Lima, Rio de Janeiro, Valparaiso, Parma, San Pedro de Atacama, Londra, Sofia. Ho imparato uno spagnolo di sopravvivenza, ho incontrato persone incredibili in tutti i sensi possibili della parola, ho imparato molto.

Lavoro. A Febbraio ho festeggiato il mio primo anno con imille, un’avventura nata un po’ per caso, in cui sono entrato con un obiettivo personale di crescita e che mi sta offrendo molto più di quello previsto. Dopo un annetto ho realizzato un piccolo sogno: lasciare il mio team e vederlo andare con i propri piedi, verso risultati più grandi dei miei.

Milano. In questo 2018 Milano ha continuato a crescere ed io con lei. Eppure quest’anno ho passato solo 112 giorni qui. Nel 2017 mi chiedevo cosa fosse «casa», in questo continuo dividermi fra Catania e Milano, lungo ormai 10 anni. Nel 2018 non è arrivata la risposta, ma è diventata inutile la domanda: ho passato la prima estate della mia vita senza la Sicilia e il Mediterraneo, ho passato più giorni a Santiago che a Catania. 

Casa al momento è l’idea del campo-base: al termine di una giornata o al termine di un viaggio: il campo-base è comunque dove hai piantato le tende e lasciato le provviste. È un luogo itinerante, dove sono gli affetti che non puoi portare con te nella scalata. 

2019

Come ho detto, questo sarà l’ultimo post di bilancio. Non lo chiuderò con desideri né con previsioni. Nel 2019 non credo realisticamente di perdere i miei difetti (strutturali) né di deviare dall’apprendimento che sto seguendo. 

Questo post è figlio di una notte di speranzoso entusiasmo passata in una piccola cucina, illuminata dal display di un vecchio macbook prima generazione, scritto appena arrivato a Milano nel Dicembre 2008. 

Per questo lo chiudo con una parola, l’unica in grado di esprimere cosa si prova a partire convinti di raggiungere le Indie, disperarsi in mezzo a un’oceano quando è ormai chiaro che i calcoli erano sbagliati senza sapere neppure dove e perché, per poi gioire di una terra incognita e trovarsi infine a fare la più grande scoperta nella storia delle esplorazioni, solo perché ci si era persi completamente.

Questa parola è: grazie. 

  1. Su Wikipedia, alla voce lapalissiano, è riportata la seguente teoria. Si tratta di una congettura, ma in fondo le congetture sono più affascinanti della realtà. In questo testo ho usato il termine lapalissiano per indicare un’evidenza molto evidente, ma potrebbe anche essere tributo alla stessa logica del costruire costellazioni (interpretazioni) a partire da stelle (fatti) in realtà totalmente scollegati: «Alla morte di La Palice infatti, i suoi uomini proposero questo epitaffioCi-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il ferait encore envie (“Qui giace il signore de La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia”). Tuttavia, con il tempo la effe di ferait (“farebbe”) fu letta esse (a quel tempo le due grafie erano simili), diventando quindi serait (“sarebbe”), e la parola envie (“invidia”) divenne en vie (“in vita”); con il risultato che il testo recitò che egli “se non fosse morto, sarebbe ancora in vita” (si il n’était pas mort, il serait encore en vie): da qui il significato di ovvietà attribuito all’aggettivo» []
  2. in realtà non esiste prova che la frase in questione sia stata davvero pronunciata da Churchill, ma in fondo onora il suo approccio alle grandi sfide che ha affrontato, molto aiutato dall’alcol []

Autunno

Non mi sono mai mosso da dove mi avete piantato.

Non ho accorciato distanze, né divelto la terra al mio passaggio. Non ho solcato mari né respirato l’aria di vette che ho scalato. Non sono mai scappato e non ho mai inseguito. Non ho ucciso e non sono morto. Eppure ho assaggiato tutte queste cose.

Sono sempre stato qui. Eppure non è qui che sono rimasto.

Come un filo d’erba, sono cresciuto in altezza. Corteccia, ho divorato me stesso anno dopo anno, giro dopo giro, non ho cambiato la mia pelle, rinunciando alla mappa delle mie ferite che raccontano la storia dei miei fallimenti. L’ho seppellita dentro, tenendo tutto con me e ricominciando da capo.

Come rami, ho assecondato ogni mio desiderio di fuga, via da me stesso per esplorare ogni direzione, senza mai separarmi da ciò che ero. Ho assaggiato il mare e respirato l’aria delle montagne più alte, grazie al vento che mi fa tremare con veemenza. Sono morto ogni inverno e ho ucciso me stesso ogni autunno.

E proprio l’autunno mi ha insegnato cosa significa perdere una parte di sé, che mai ricrescerà. La primavera mi ha mostrato la lezione del germoglio: niente torna mai ad essere come prima ed è ciò a rendere unica ogni nuova foglia. Ho sofferto per ogni fiore di me che ho perso, ma questo non mi ha impedito di averne di nuovi. Sono loro ad avermi fatto capire che l’amore non è assenza di perdita, ma attraversare con paziente speranza l’inverno che mi separa da una nuova primavera.

Ho creduto che crescere fosse espandersi verso l’alto. Ma per sfiorare il cielo ho scoperto l’importanza di abbracciare la terra, ogni ramo che si allunga facilmente oggi, è una radice invisibile che si è fatta strada ieri, con fatica.

Ho invidiato la libertà del lupo di andare dove crede, solo per scoprirlo infine ancorato alla fame che lo costringe a seguire la preda, quanto io al terreno che mi ha visto uscire dal guscio del mio seme.

Perché oggi sono qui, in una forma definita. Ma se ti avvicini a guardare meglio, vedrai che invece sono la lenta esplosione di me stesso, la somma incoerente di tutte le direzioni che ho preso e che prenderò. Sono la radice che ama il buio e la foglia che vive di sole. Cerco l’altezza e ho bisogno della profondità. Sono il ramo che si allunga verso di te, ma anche quello che fugge nella direzione opposta.

L’audacia dell’albero è il suo monito di incoerenza caparbia: resta piantato qui dall’inizio, contro la neve e il sole. Muore e rinasce, perde e guadagna: niente può rifiutare e tutto contiene.

33, 2017

Ogni anno, dal 2009, scrivo un piccolo post (questo) che mi aiuta a prendermi del tempo per ragionare su cosa mi è successo. E su come sono cresciuto. Perché tutti cresciamo, dipende dal fatto che ci capitano delle cose, ma il come cresciamo dipende più dalla nostra volontà di pensare a queste cose avvenute, alle risposte che abbiamo dato, agli effetti che queste hanno avuto.

Questa mia piccola tradizione è al nono anno di vita (qui gli anni passati: 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009), nacque per caso quando mi trasferii a Milano (quindi sì, si tratta anche del nono anno della mia temporanea permanenza al nord) ed è legata a un posto in cui mi sento a casa, il Mediterraneo. Ogni anno infatti ho scritto il mio post da un porto del Mare Nostrum.

Quest’anno invece, un’eccezione: ho scritto tutto sulle rive dell’Oceano Atlantico, a New York, dove ho passato il mio compleanno, insieme a quello di mia sorella Sara.

Si tratta di un’importante deroga alla regola, ma anche il 2017 in fondo è stato un anno come nessuno dei precedenti.

33

La più importante lezione di quest’anno riguarda la mia capacità di stare dentro una relazione. Lo stare uniti, in qualsiasi tipo di relazione, non è questione di incastro a priori, né di assenza di errori. Quello che ho imparato è che non è neppure questione di volontà, intesa come impegnarsi al massimo per evitare i punti di crisi. A 33 anni ho la convinzione che stare uniti dipenda dall’intenzione a priori: non è la conseguenza di qualcosa, ma la premessa.

Da questa premessa si affrontano i punti di crisi che sono necessari e, in una certa misura, salutari. Salutari non per lo stare uniti in sé, come spesso ci hanno propinato. La crisi è salutare per la crescita individuale: è solo nel momento di crisi che hai modo di verificare quanto è saldo quello che vuoi. Ma soprattutto è grazie a quei momenti in cui tutto è in discussione che hai la possibilità di capire se quello che vuoi è anche quello di cui hai bisogno.

Quest’anno ho perso una persona molto importante. Ho incassato un fallimento molto grande. Inutile girarci intorno: trovare una morale o un insegnamento in ciò è un espediente intelligente per metabolizzare la separazione. Ma la verità resta: fa un male cane. Sì, certe cose capitano, quasi mai per il grosso motivo che viene facilmente raccontato, ma più per la somma di mille piccoli motivi. Sopportabili palle di neve in sé, una valanga che stritola se presi tutti insieme.

Ho visto questa valanga venir giù tante altre volte, in questi 33 anni, quasi sempre per mia causa. Stavolta doveva essere diverso e non lo è stato. Ripartirò da zero, riprovando. Perché la verità è che le risposte nella vita non sono come le ricerche di Google, non si misurano in millisecondi dalla formulazione della domanda. L’unica cosa che ha senso fare è provare. E riprovare. E riprovare. Prendendo tempo. Perché a volte riusciamo a costruire la risposta, a volte no. Ma a star seduti, la risposta non si trova di certo.

Quest’anno ho ricevuto tanto da persone che fanno parte della mia vita ma non sempre della mia quotidianità. A conferma del fatto che i legami solidi non si misurano con la quantità degli attimi ma con la qualità dei momenti passati insieme. E ci vogliono tempo e dedizione per costruire simili legami. Non sempre mi sono sentito capace di simile dedizione, chi mi conosce sa che io e il tempo abbiamo una relazione complicata, però tutto l’affetto che ho ricevuto mi ha fatto pensare che qualcosa forse sono stato stato in grado di costruire: è stata una sorpresa che mi ha reso felice.

In sintesi: a 33 anni mi trovo di nuovo al punto di partenza. Cercando di far funzionare le cose che ho sempre cercato di far funzionare (con scarso successo). Non sapendo da dove iniziare. Ma a ben guardare con una differenza: io sono cambiato. E questo significa in particolare che davanti alle stesse domande, non vivo la stessa ansia. Ci sono le domande, ci sono io che cerco una risposta, nel frattempo ci sono tante cose belle e brutte. Ma so che nessuna di queste cose (le domande, le risposte, le cose belle e le cose brutte di contorno) è un giudizio su di me. Sono tutte cose che dicono qualcosa di me, ma non servono per dimostrare a me stesso chi sono. Perché ormai lo so.

2017

Una delle mie storie preferite della Bibbia è quella di Giobbe. Questa storia mi piace per un motivo: alla fine del racconto Giobbe è più ricco di prima, ma ciò non è avvenuto poco a poco, bensì è passato dall’avere molto, al non avere niente e poi ad avere più di prima. È un «viaggio» che giudicato dal punto di arrivo (Giobbe ha tutto ciò che desidera) è positivo. Ma che ha dentro tanti momenti molto negativi.

Questo mio 2017 è stato un po’ simile alla storia di Giobbe: guardato dal punto di arrivo è stato un ottimo anno, probabilmente il migliore finora. Ma se guardo al suo svolgimento rivedo momenti estremamente belli e momenti davvero terribili.

Forse è proprio questo che lo ha reso speciale: mi ha proposto un viaggio nel buio delle mie peggiori paure e mi ha anche portato a respirare l’aria rarefatta oltre le vette delle mie più sfrenate ambizioni.

In questo 2017 ho avuto conferma dal mio lavoro di una cosa che avevo prima solo intuito: è facile avere ragione quando si scommette che le persone ti deluderanno. O non riusciranno a fare le cose come le avresti fatte tu. Davvero mai le cose vanno come le vogliamo o immaginiamo. Il punto però è che a volte le persone vanno ben oltre le nostre aspettative e in quei momenti siamo ripagati in abbondanza di tutti i fallimenti e le delusioni.

Infine, in questo 2017 ho imparato che qualsiasi organizzazione si può cambiare. Qualsiasi. Ma per farlo occorre avere le idee chiare (facile), il coraggio di guardare in faccia i problemi e ascoltare la prospettiva degli altri (meno facile), la forza di andare nella direzione giusta limitando i compromessi, perché la direzione giusta è l’unica possibile se davvero si vuole cambiare. Spesso per evitare o limitare la parte complicata, il «come» cambiare le cose, finiamo con il cedere sul «cosa» cambiare. E questa è l’unica sconfitta che chiamo fallimento.

Nel 2017, grazie a imille e epico, sono diventato molto più bravo nella virtù della pazienza, che non è farsi andar bene quello che non ci va bene, ma più evitare di essere distratti dal drappo rosso mentre sei impegnato ad infilzare il torero.

Nel 2017 ho avuto l’occasione di osservare da vicino tre persone da cui ho appreso delle grandi qualità di cui faccio tesoro, sono state dei maestri inconsapevoli e mi hanno arricchito come persona e come professionista.

2018

Caro 2018, da te non mi aspetto nulla. Il 2017 è stato un anno fuori dal comune. E conosco abbastanza la matematica da temere gli effetti della «regressione dalla media», eppure li avevo paventati anche alla fine del 2016 e ho invano atteso Godot. Comunque, anche se dovessero arrivare proprio nel 2018, mi troveranno ad accoglierli con il sorriso sulle labbra.

Ciao, 2017. Mi mancherai.

Dimmi Dove

Dove sono i tuoi sorrisi?

Dov’è il fiume in piena delle tue parole?

Quel cielo di primavera negli occhi, quale cuore fa germogliare?

Una stagione che finisce non lascia nulla indietro, persino l’inverno porta con sé la sua neve. Eppure quello che ha bagnato la pelle resta, dentro ricordi visibili solo chiudendo gli occhi, dentro sapori che come il buon vino, apprezziamo molti anni dopo averli raccolti. È tutto sepolto, come un fossile, la pressione di quello che si accumula dopo lo schiaccia ma proprio schiacciandolo lo preserva in qualche modo. Muore soffocato, per diventare immortale.

La forza del lupo è temere la morte. Per questo fugge e per questo assale, per questo morde e lecca, per questo uccide e mette al mondo nuova vita, per questo si stringe al branco mentre l’alba scura della notte si diffonde alle spalle del sole che tramonta.

La forza dell’albero è morire ogni giorno, perdendo parti di sé mentre nuove parti si aggiungono, simultaneamente e instancabilmente. Non teme le stagioni perché ha molti sé da sacrificargli e molti da consacrargli. Con i rami accoglie quello che viene dal cielo, grazie alle radici si fa uno con la terra. L’albero ondeggia al vento perché fin da quando era un filo d’erba ha imparato che opporvisi è pericoloso tanto quanto cedergli. L’albero divora se stesso ad ogni cerchio di corteccia che aggiunge, per dimostrare di aver appreso la lezione: crescere significa morire.

Un tempo sapevo solo morire da lupo: la paura che fa digrignare le zanne per l’ultimo morso che affonda nel collo, con l’ultimo fiato. Un po’ mi manca. Un po’ mi salva. Un po’ è colpa, un po’ è merito. In fondo siamo tutti alberi, anche se proviamo a morire da lupi.

Nemico del marinaio non è l’uragano ma la bonaccia. Non fu l’inverno a sorprenderci, ma l’arrivo di due stagioni differenti allo stesso tempo, due stagioni dove tenersi per mano non significava più impedire di perdersi. Ma di salpare.

Per dove?

Solo il domani conosce la risposta.

A noi è dato solo di decidere cosa fare con la voglia di sfidare l’orizzonte che si schiude dentro chiedendo il privilegio del sole.

Il Sogno del Deforme

E corsi via.

Con il pianto negli occhi, la furia nel cuore, un lungo grido sulle labbra. Il dolore paralizza, la disperazione mette le ali. Ali di pazzia che fanno volare i pensieri più pesanti.

Il riflesso. Avevo visto la mia immagine malfatta. Mi ricordai perché avevo bandito gli specchi, mi ricordai perché non faccio festa all’anniversario della mia nascita. Mi ricordai anche che sopportavo la vista del mio aspetto deforme, un tempo. Finché non incontrai altri, essi finsero normalità e fu per credere a quella menzogna che celai la verità dello specchio. Non amavo mentire, ma non avevo che domande da aggiungere alle loro domande, per questo finì a convivere con la bugia. Se non amandola, almeno ringraziandola. Non era una risposta, ma era il muro di cinta posto a difesa dagli interrogativi insistenti.

Urlai finché ebbi fiato e quando finì continuai nella mia testa. Urlai fino a perdere conoscenza, scivolando nei sogni agitati della mente senza pace. E fu lì che rinacqui, orfano di ogni deformità, con un corpo che obbediva ai desideri della mente come un guanto non può che seguire la mano, con un corpo degno involucro di una mente senza eguali.

E in  quel dominio felice di Morfeo, dimentico di me, mi avvicinai a te con appetito di pelle perfetta che brama pelle perfetta. E fu allora, sulle iridi dei tuoi occhi, che mi vidi riflesso nella mia deformità.

E corsi via.

Con il pianto negli occhi, la furia nel cuore, un lungo grido sulle labbra. Il dolore paralizza, la disperazione mette le ali. Ali di pazzia che fanno volare i pensieri più pesanti.

Grazie, Mamma.

Ho fatto tanti discorsi, fin qui: ho ritirato premi, accettato riconoscimenti, incassato complimenti. Ho scritto discorsi, parlando perfino a qualcuno che ascolterà fra quasi un decennio ancora.

In tutte queste occasioni, ammetto di non avere avuto sempre le idee chiare su cosa dire. Mentre sono sempre stato molto puntuale su cosa non dire.

Una delle cose che «non ho detto» più spesso è «grazie Mamma».

Ho sempre detestato voltare per la prima volta la copertina (rigorosamente dopo aver odorato il libro) e trovarla la: la mamma di qualcuno, formato dedica. Fra me e lui1, la mamma. Che c’azzecca?

Ho sempre detestato l’«uomo che non deve chiedere mai», con le mille tattiche da manuale sulle donne che puntualmente sono irretite dallo stratagemma, come topi che credono di scegliere ma sono solo dentro un sapiente labirinto di laboratorio che li condurrà solo dove qualcun altro vuole. Per poi: «scusa è mia mamma», correndo a rispondere a telefonate a qualsiasi ora, come fossero conferenze di Yalta convocate via whatsapp.

Ho sempre detestato un principio tanto evidente quanto dimenticato: sono qui, perché tu hai scelto così. Sono qui e per tutta la vita indosserò un nome che tu hai scelto, come un’etichetta marchiata a fuoco sul posteriore di un manzo. Non mi hai mai chiesto il permesso e dovrei pure esserne grato?

Ho sempre detestato la tacita, accettata e tutto sommato celebrata, idea che continui ad essere un pezzo di corpo di tua madre anche dopo quel carcere lungo 9 mesi.

Ho sempre detestato l’idea di avere un debito con qualcuno. Figurarsi con chi ti ha nutrito, pulito, protetto finché non sei stato in grado di farlo da solo.

Ma soprattutto, ho sempre detestato quella sua capacità di esserci sempre, anche quando non la penso come lei vorrebbe. Anche quando ho desiderato il biasimo e la condanna, perché io mi ero già giudicato colpevole. Essermi accanto, con un’oceano d’amore dentro il quale occorre abbandonarsi, per non rischiare di annegare in quella sua profondità.

Le madri sono l’origine della somma incoerenza, della contraddizione che rende l’Universo caotico: puoi essere sbagliato, lo sarai anche per lei, ma non per questo verrà meno il suo amore. Ho sempre pensato a lei leggendo quel passo della seconda lettera a Timoteo che recita: «certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso». Per me non è lui, ma lei.

Credo che questa somma incoerenza racchiusa dentro il significato di «Mamma», scompigli il mondo. Ne impedirà sempre l’ordine. Le mamme sono nemiche dell’ordine. Sono onde che vanno avanti e indietro incessantemente, senza una direzione pur avendo una direzione.

E no, questo non è un post per celebrare il mistero delle mamme, né per augurare loro qualcosa durante il giorno a loro dedicato.

Questo è solo un post per dire grazie alla mia, di Mamma. Non per tutto quello che ha fatto, non per la tenacia, non per le idee che ha voluto trasmettermi. Ma perché è sempre stata qui anche se io non ho mai fatto nulla come lei voleva.

  1. Notatelo: è una tendenza spiccatamente maschile. E no, le autrici non ringraziano il papà. []

Nel più saldo dei silenzi, il più lungo dei discorsi

La pioggia.

È sempre il rumore della caduta a svegliare i pensieri. Hai fatto così tanta strada da averne dimenticato il principio, sei salito sempre più in alto solo per la smania di sapere cosa avresti trovato dietro la prossima curva. Hai continuato, perché dopo ogni angolo vinto, sapevi di trovarne un altro da conquistare: ormai quella impervia è la strada comoda. Chi era con te all’inizio? A quale salita lo hai staccato per un momento, per poi ritrovarlo mai più?

Non hai idea di dove stai andando, anche se procedi spedito. In fondo non t’è mai importato, un luogo vale l’altro purché non sia quello da cui parti. Esplorare non è fuggire, ma neppure arrivare. Solo eterno appetito di scoperta, inappellabile come la condanna del cieco che ha bisogno delle parole di un altro per tentare di capire la meraviglia del tramonto che ha davanti.

Ed è lì, in quella notte, davanti a un pallore chiaro come la luna che fa naufragare mentre promette un porto sicuro, è lì che senti tremare le tue radici e sembra che forse tu non ti sia spostato molto da dove ti abbandonarono, seme.

Ma lì è anche dove trovi nuove domande, dove riscopri la fame e accendi la voglia di muovere un nuovo passo, verso qualsiasi delle infinite direzioni su cui mai hai piantato la tua orma.

In questa notte, dove l’Atlantico e il Mediterraneo sembrano agitarsi come un’unica onda dello stesso mare, nel più saldo dei silenzi è il più lungo dei discorsi.

 

 

Il Sogno della Bambina

Sali lentamente ma con decisione. Quando le energie sembrano esaurite ripensi a tutti quelli che hanno detto «non ci riuscirai, mai» e a loro dedichi un nuovo passo in avanti. Non è chiaro quale potrebbe essere il tuo posto, solo che sarà tuo. Non è chiaro cosa ci sia alla meta, solo che è lassù che devi arrivare.

La tua guerra di conquista non si muove sul filo della spada ma dietro sorrisi titubanti, ciascuno di loro apre la possibilità di una resa, solo per ricordare che non succederà. Ogni nuovo ostacolo rinvigorisce il desiderio, ogni difficoltà la tenacia, ogni intemperie rende la pelle un’armatura.

Ma a salire con decisione è sempre quella bambina che ha guardato la montagna la prima volta senza sapere perché desidera far sua la vetta. Il tuo vestito è ormai logoro, le tue scarpe consumate, solo il sorriso è rimasto lo stesso. La tua è un’avanzata e una fuga, un capriccio e un amore, un desiderio effimero e il sogno di una vita.

Ovunque tu arriverai, il mio augurio è che tu possa scoprirti seme, affondare radici profondamente e fiorire, blu e grigia, ad ogni primavera della vita mettendo nei tuoi colori la stessa intensità della tua determinazione.

 

La Prima Cosa

La fantasia è un giardino dove i desideri possono correre nudi. Per quanto ardisca, lo sguardo della volontà non raggiungerà mai un muro di confine. 

Qui è facile volare, ma è nelle passeggiate che assapori il meglio dei frutti che in abbondanza si protendono dai rami, come mani tese non per accarezzare ma per essere afferrate. Caldo, per chi ha fame di sole. Brezza, per chi reclama, a vele spiegate, spinta. 
Non si chiamano desideri, perché qui non si esprimono: eccoli già adulti mentre vengono concepiti.
Ogni tanto chiudo gli occhi per sentire l’odore della pioggia, tolgo le scarpe per affondare nel fango i piedi senza sporcarli. Le labbra increspate inventano parole mai pronunciate mentre l’orecchio le trasforma in discorsi applauditi.

In questo giardino la Libertà non è cresciuta perché mai ha smesso di giocare con la sua gemella Schiavitù. L’altezza non è ardimento perché non esiste gravità a contrastarla. Il mare non conosce rive, ma solo orizzonti che invitano l’occhio ancora più in la.
Ogni battito è un’eruzione vulcanica, il magma nero fiorisce variopinto e il tuono chiama un nome che non è perduto nella memoria ma attende vergine di essere scoperto.

In questo dominio senza padroni, non c’è conquista che più ambisco del saperti arresa al mio abbraccio.

32, 2016

Sono in un bar che porta il nome di una delle storie più antiche della nostra civiltà (Betlem), in una città in cui si parla una lingua che non conosco ma intuisco (Barcellona), bevendo qualcosa che non avevo mai assaggiato prima (Blue Betlem) e che ho scelto a caso, un po’ fidandomi della propensione a provare qualcosa che mi facesse meglio capire cosa questo posto ha da dire.

Non sono rimasto deluso dal cocktail. Così come non sono rimasto deluso da questo 2016, un anno così carico e abbondante da meritare di essere scolpito sulla pietra, come le mattanze migliori dei Raìs di Favignana.

Mi trovo a Barcellona in ossequio alla tradizione di spostarmi ogni anno, in prossimità del mio compleanno, in un porto di mare del Mediterraneo, per fermarmi a riflettere sul piccolo bilancio di un ennesimo anno passato. Quindi, come nel caso del 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009, di seguito si trovano le mie conclusioni sul 2016.

32.

Una costante dei miei bilanci fin qui è stata la tensione (più o meno latente) fra due parti di me, opposte. Quella nichilista, affamata di dominio e libertà (intesa come assenza di legami), che mi piace chiamare il Lupo. E poi la parte romantica, alla costante ricerca di scopo e appartenenza (intesa come necessità di un legame), che mi piace chiamare il Cane Pastore.

Il Lupo interpreta la vita come distinzione ed estinzione. Vive nel paradosso: percepisce la bellezza della caducità e beve sangue perché è qualcosa di vivo, ma per farlo deve uccidere. Il Cane Pastore ha bisogno di morire per qualcosa, è romantico perché cerca la buona morte, quella che incarna la fedeltà suprema ad un legame, ribadito con il sacrificio massimo.

Dopo anni di lotta, con alterni risultati, Lupo e Cane Pastore hanno deciso di mettersi d’accordo. Non si amano, ma sono riusciti a dare vita a qualcosa che non è ancora alleanza ma che è già ben più di una tregua: riconoscono all’altro il diritto di esistere.

Il risultato è stato questo 2016, i cui semi sono stati gettati nel 2015. È stato un anno perfetto da tutti i punti di vista. Ho raccolto i frutti di semine precedenti costate fatica e fede. Ho scoperto che ci sono passaggi a nord-ovest per chi non ha paura di mettere la propria vita sul piatto e sfidare le leggende tramandate dai nostri padri.

Ho scoperto che le persone più pericolose che ho incontrato finora non sono state quelle bugiarde. Bensì quelle che non si preoccupano di sfidare le proprie convinzioni, di coltivare il dubbio, di non vedere buchi e angoli da vicino, preferendo credere alle superfici lisce da lontano. Sono queste persone, armate di ottime intenzioni, a propagare l’idea che esista una soluzione alle cose. Invece delle due-tre possibili. Sono queste persone a sapere tutto quello che si dice in giro circa il mare oltre le Colonne d’Ercole, ma a non aver mai messo piede su una barca.

E io, per lungo tempo, sono stato una di queste persone.

Nel corso del 2016 ho amato quest’incoerenza che mi ha salvato da qualcosa di peggiore della morte per fallimento: una vita di errori senza apprendimento. A 32 anni tocco con mano i frutti di questo cambiamento compiuto, come un frutto maturo che quasi non ricorda di essere stato fiore.

Quest’ultimo anno non mi ha insegnato molto di nuovo ma mi hanno dato conferma di ciò che ho imparato nel corso dei precedenti, in particolare:

• Forse esistono convinzioni definitive, ma non possono esistere convinzioni universalmente valide.

• Chiunque ti insegna qualcosa. Ma succede solo quando ci si predisponiamo ad ascoltare.

• Non ha senso agire tanto per fare, ma neppure ha senso pensare tanto per immaginare mondi. Nel primo caso ci si tiene occupati camminando, ma senza una meta. Nel secondo caso si passa da una meta all’altra ma senza aver mai mosso un passo.

• Non esiste un unico sistema di riferimento per giudicare le azioni e la stessa azione compiuta da persone diverse potrebbe avere valori differenti. Per capire davvero le motivazioni di chi agisce occorrerebbe giudicare dalla sua prospettiva, abbandonando la nostra. Ma ho anche capito che a quel punto non ha più significato la ricerca della comprensione, perché saremmo d’accordo probabilmente con chi ha compiuto l’azione che ci ha turbato.

• Nella vita è molto comune accogliere o respingere a priori e sulla base di ciò definire spiegazioni e fatti, piuttosto che il contrario.

2016.

In questo 2016 ho incontrato persone che hanno sfidato le mie convinzioni su un piano diverso da quello in cui mi sento forte. Ho incontrato persone che hanno fatto dell’affetto una catena. Ho incontrato persone irriverenti che hanno fatto un falò con le mie intenzioni. Da tutte queste azioni ho avuto solo del bene.

Ho viaggiato molto nel 2016, rimanendo a Milano solo 144 giorni. Ho visitato posti incredibili e visto esseri umani condurre vite in osservanza di storie e convincimenti diversi dai miei. Ho capito che siamo meno liberi di quanto crediamo, almeno finché non accettiamo che la nostra libertà per qualcun altro abbia un nome diverso e a volte offensivo. Ho imparato che se questo è difficile, esiste comunque una lezione ancora più difficile da accettare: ciò che chiamiamo offesa potrebbe essere chiamata libertà da qualcuno che amiamo.

Nel 2016 ho rivalutato ogni errore o fallimento passato perché è stato come una martellata: mi ha reso affilato e duro, preparandomi per guerre e arene importanti.

Grazie a Epico ho scoperto il valore di un gruppo eterogeneo, grazie a WHY ho saggiato cosa ho imparato negli anni sul dare fiducia. La responsabilità dell’insegnamento allo IULM ha inaugurato per me una fase diversa nell’approccio a questa attività: meno auto-realizzazione e più servizio.

Ma soprattutto nel 2016 è successa una cosa strana: per la prima volta mi ricordo di tutte le persone stupende che – lavorativamente o meno – hanno contribuito a un anno spettacolare in tutto, mentre non provo che compassione per quelle che hanno causato momenti difficili. Non so quindi se il 2016 sia stato un anno davvero differente dagli altri, quanto a rapporto fra cose belle e cose brutte. Oppure se sono io ad aver sviluppato una sensibilità diversa nel giudicare le cose che mi sono capitate.

2017.

Per la legge della regressione dalla media a un anno eccezionalmente sopra la media (il 2016) deve seguire un anno decisamente sotto la media. Non so se sarà così oppure se ridefiniremo la media. Ma di certo non ho paura di scoprirlo.